JUNGLE, “Jungle” (XL, 2014)

jungle 1Questa strana moda per cui molti artisti, producer, o dj facciano di tutto per celare la propria identità secondo una non più fresca strategia di mercato del mistero comincia veramente a stancare, almeno a chi scrive. L’abbiamo capito che è il loro modo di giocare con i diversi progetti musicali, con i problemi della contemporaneità e del post-modernismo, ma da questa parte qui tutta questa storiella dei segretucci comincia seriamente ad annoiare.

Perché mai io dovrei scrivere di “Jungle”, il primo disco dei Jungle, un collettivo di artisti londinesi a cui fanno capo due tizi che si fanno chiamare “J” e “T” senza poter essere un pochino innervosito? Lo capite quindi il tedio, no?

Ma per fortuna esiste la rete, esiste l’Internet, e questi giochetti con le maschere durano sempre meno. Ed è per questo che posso sapere – e quindi scrivere – un po’ di più a proposito di questa nuova prima uscita che sta ricevendo parecchi apprezzamenti tra i fini conoscitori di musica e di scoperte musicali: per esempio che i veri nomi di J e T sono Josh Lloyd-Watson e Tom McFarland, che entrambi hanno alle spalle qualche progetto meno fortunato di produzione, e che sebbene questi due tizi suonino e cantino come due fratelli neri in realtà sono due inglesotti con la pelle chiara e uno ha pure i capelli rossi e le lentiggini.

Ma nonostante i tratti somatici discordi, la musica dei Jungle è appunto musica nera, frutto di un tentativo scientifico di ridare vita al scintillio soul e r’n’b degli anni ’70, quelli della Motown e di Marvin Gaye, il cui spettro rieccheggia il tutta la durata del disco, praticamente in tutte le canzoni. Quello di J e T però non è solo un disco che guarda nostalgico indietro nel tempo, ma anche e soprattutto un’opera di ricerca e innovazione: com’è successo a tanti, e tra i tanti possiamo citare James Blake e i Daft Punk, ora anche i Jungle provano a riprendere quel preciso suono funky-pop-soul e a farne qualcosa di molto più adatto al tempo presente: ed è per questo che all’impianto classico delle canzoni viene aggiunto con la sapienza dei bravi quel modo contemporaneo di fare della musica ballabile, mescolando i suoni vintage coi synth e l’elettronica.

E nel disco tutto questo si riconosce in maniera inconfondibile.
Ci sono cose che seppur spruzzate di modernità rimangono nell’insieme aperto dell’ r’n’b, spostandosi a volte un po’ più verso il funky, ma comunque influenzate fortemente dalla tradizione dorata del genere di appartenenza (come nel singolone “The Heat”, in “Platoon” o in “Julia”). Altre invece che provano a suonare più attuali, più aperte verso l’elettronica e la dance: è il caso dell’altro singolone “Time” ma anche di altri pezzi come “Drop” e “Lucky I Got What I Want”. È qui che il progetto artistico dei Jungle diventa chiaro a tutti, comprensibile nel suo tentativo post-moderno. E non importa nemmeno il fatto che forse ciò che dell’album sarà più apprezzato saranno i momenti più vicini alle vecchie maniere, perché è lì che effettivamente c’è ancora più sostanza, è lì che i pezzi sono più riusciti.

Quello che importa è invece inserire questo disco dei Jungle tra i tantissimi dischi che nel corso del tempo hanno provato a declinare quella materia comunque sempreviva del suono nero anni ’70: un disco tra i tanti, nulla di unico, nulla di irripetibile, nulla di epocale, ma comunque molto pregevole. Un disco che ai primi ascolti risulta perfetto, fila talmente liscio che col tempo sembra quasi da odorare di laboratorio scientifico: e se fosse progettato a tavolino, calcolato nei suoi ingredienti e nelle sue dosi con la freddezza matematica degli scienziati? Forse: saranno le future prove di J e T a dirci se è la loro è soltanto chimica.

71/100

Enrico Stradi

1 settembre 2014