SHARON VAN ETTEN, “Are We There” (Jagjaguwar, 2014)

sveNon è sempre facile rimanere lucidi quando si scrive di un disco, perchè può succedere che dentro di noi un sacco di cose invisibili si incrocino, si scontrino, si facciano la guerra. E ci sono dischi che questa guerra la raccontano meglio di altri. Per me “Are We There”, il nuovo disco di Sharon Van Etten, è uno di quelli, e questo è per avvisarvi preventivamente del fatto che per tutto il resto della recensione non mi sforzerò di restare lucido.

“Are We There” è il quarto album di Sharon Van Etten, questa tipina del New Jersey capace in pochi anni di farsi notare non solo da chi la musica la ascolta, ma soprattutto da chi la fa: entrata nel cerchio magico dei The National, ospitata in qualche pezzo dei The Antlers, è stata pure accompagnata durante lo scorso tour da Zach Condon che tutti conoscono meglio come il frontman dei Beirut.
Tutta questa gente più o meno importante deve aver notato quello che in questo disco si esprime una volta per tutte, e cioè il fatto che a Sharon Van Etten riesce davvero bene scrivere le canzoni.

Perchè se dal punto di vista musicale il suo folk-pop triste non rappresenta certo una novità, quello che davvero convince in questo disco sono la forza e l’intensità con cui la Van Etten riesce a raccontare di sé, del suo amore per qualcuno, e delle difficoltà più o meno giganti che ci sono in mezzo. Al confronto di tante lagne (finto)malinconiche a cui siamo abituati, le canzoni in “Are We There” colpiscono per il calore, per la  purezza e la potenza delle cose da dire. Uno non scrive cose come “Break my legs so I won’t walk to you / Cut my tongue so I can’t talk to you / Burn my skin so I can’t feel you / Stab my eyes so I can’t see” senza sentirsele scavare sulla pelle e/o dentro la cassa toracica.

In tutto il disco le cose non cambiano, e le canzoni sanguinano dolore a ritmi più o meno lenti. C’è qualche strano tentativo forse eccessivamente pop, come in “Taking Chances” e “Our Love”, ma sono episodi che non cambiano l’atmosfera del disco.
Un disco che non finisce di certo come ci si aspettava, ed è questa la vera sorpresa: negli ultimi venti secondi, quando ormai la splendida “Every Time The Sun Come Up” sembra finita e noi stiamo per rimettere su la prima traccia, con ancora gli occhi più o meno bagnati a seconda dei casi esistenziali, si sente all’improvviso una risata un filo stonata, e subito dopo Sharon canticchiare: “Maybe something will chaaange”.
Eccolo il culmine dell’album, è tutto qui: due risate stonate in fondo al disco. Non chiedevo di meglio, asciugatevi gli occhi.

78/100

(Enrico Stradi)

9 giugno 2014