ANGEL OLSEN, “Burn Your Fire For No Witness” (Jagjaguwar, 2014)

Angel-Olsen-Burn-Your-Fire-For-No-Witness1A due anni di distanza da “Tramp” di Sharon Van Etten, la Jagjaguwar (non occorre ripetere gli artisti del rooster, vero?) fa di nuovo centro con il cantautorato indie-rock al femminile: il secondo album di Angel Olsen, artista stavolta proveniente dal Missouri. Anzi, fa il vuoto.

Trattasi infatti di un disco importante, già da classifica di fine 2014, un capolavoro di forma e stile dalla prima all’ultima nota. Undici brani senza cali di livello nè tantomeno di tensione, con una backing band potente e al completo servizio della vocalità particolare, quasi “da recital” della Olsen. Perchè i testi grondano di pathos e rabbia, divenendo centrali all’intero lavoro. “I Wish I Had The Voice of Everything”, canta nella graffiante “Stars”, per svestire quei panni intimisti e sollevarsi così dal peso di un’esistenza infelice. “Forgiven/Forgotten”, folgorante singolo di lancio (che mi ha ricordato gli ultimi Crocodiles nel sound delle chitarre), ne rivela il cuore lacerato nell’emblematico verso, “Will You Ever Forgive Me a Thousand Times Through for Loving You”.

I riferimenti musicali di “Burn Your Fire For No Witness” sono tra i più disparati, ma abilmente nascosti dall’inconfutabile personalità di Angel Olsen. Come non pensare a PJ Harvey nell’apertura di “Unfucktheworld”, o ai Jesus and Mary Chain di “Darklands” in “Dance Slow Decades”? O alla bellezza di un pezzo quale “High & Wild”, pieno di tastiere doorsiane che collidono con chitarre new wave in un finale da tuffo nel vuoto? Arrendersi, è l’unica strada possibile. La Olsen conosce solo l’arte del rilancio, così da non farci mancare neppure l’atmosfera da loner di scuola younghiana che ce l’aveva fatta conoscere: “Enemy” è così bella che la nasalità della nostra la fa sembrare come la descrizione di un sogno; “White Fire” si snoda addirittura per sette minuti in un mood che mi ha ricordato “Hallelujah” in versione Jeff Buckley.

Se si potesse rappresentare l’album in un solo brano, non ci sarebbero dubbi nella scelta di “Hi-Five”, un autentico miracolo in giro di Do che incrocia uno sporco blues degli Stones con la poetica di Hank Williams, sulla scia del recente lavoro di Katie Crutchfield alias Waxahatchee. Ma tutti gli episodi sarebbero passabili di lode e contengono una chiave di lettura che potrei definire universale, perchè citando le parole della ballad rarefatta a centro disco “Lights Out”, “Some Days All You Need Is One Good Thought Strong in Your Mind”. Mettete Song al posto di Thought, moltiplicate per undici e il gioco è fatto.

85/100

(Matteo Maioli)

27 Marzo 2014