TOY, “Join The Dots” (Heavenly, 2013)

Join_the_dotsPoco più di un anno fa i Toy sfondavano le porte della ribalta con l’omonimo album d’esordio, collezionando critiche ammiccanti e rastrellando followers ammaliati da convincenti prestazioni live. “Join the dots” è la seconda fatica del quintetto britannico. Un album complessivamente più soffice e meno dinamico rispetto al precedente. In tutto, niente di sconvolgente o particolarmente complesso. Per unire i puntini servono solo alcune semplici istruzioni contenute nella scatola del gioco. Una batteria minimale, che trova la giusta velocità di crociera sin dalle prime battute e porta a destinazione i passeggeri senza mai sobbalzare, un automatismo così ben congegnato da non risultare mai noioso nella sua marcia monotematica. Chitarre scarne e ridondanti che, come mattoncini di Lego, si incastrano alla perfezione con le melodie intergalattiche elaborate dal synth, esaltandone la drammaticità nei momenti più intensi. Linee di basso intriganti che fanno il bello e il cattivo tempo, arricchendo i brani con pennellate ritmiche generose e variopinte. Infine la voce di Tom Dougall, un po’ pallida al cospetto dell’ingranaggio musicale, appesantita dal riverbero e banalizzata da metriche che ricalcano le strutture di filastrocche fanciullesche.

Il brano strumentale d’apertura “Conductor” è fantastico – nel senso psichedelico del termine – e viene impiegato come micidiale manifesto stilistico di ciò che i Toy sanno fare meglio, ovvero ipnotizzare e dare forma ai sogni, con un intenzione sonora che, in questo caso, non può non ricondurre ai Pink Floyd di “The Piper at the gates of Dawn”. Allo stesso modo, il cantato ricorre spesso e volentieri alle illogiche logiche Barrettiane, come nel caso, ad esempio, della scanzonata “You won’t be the same”. E non è finita qui. In generale, il Cappellaio Matto (soprannome più che mai azzeccato per il Barret solista) sobbalza alla mente anche per quella fragranza di reminiscenza infantile di cui l’opera dei Toy sembra essere pregna. Il masterpiece arriva con la titletrack, primo singolo estratto dal disco. La ritmica serrata e danzereccia intriga e cattura sin al primo ascolto e anche la voce, stavolta, centra il bersaglio. Il resto è piacevole e scorre via tra melodie sognanti e cantati sussurrati, bypassando senza remore anche un paio di pezzi insipidi.

In definitiva non si può forse parlare di album della consacrazione, quanto piuttosto di un ulteriore lingotto da mettere in cassaforte in attesa di capitalizzarne il valore nelle tappe future, alla faccia degli avidi detrattori che già all’esordio avevano etichettato la band come una semplice meteora.

70/100

(Michele Scaccaglia)

22 gennaio 2014