TEMPLES, “Sun Structures” (Heavenly Recordings, 2014)

Temples-Sun-StrucAppena ascoltati sono finiti dritti dritti nei nostri “Questo Spacca!”, era inevitabile. A pelle sono la “band del momento”, se non quella di cui si parla di più ora, quella che senza ombra di dubbio marcherà il 2014 da un punto di vista di fruibilità-pop, e non solo perché piacciono a Noel Gallagher (che ha criticato la Radio 1 della BBC perché non li trasmette).
Però un conto è giudicare un paio di singoli, altra cosa è vederli all’opera sulla lunga distanza di un album, ragione per cui questo “Sun Structures” va analizzato per bene per capire se siamo di fronte davvero – e questa sarebbe la sensazione iniziale – ad un debutto inglese che può marcare questo decennio come lo fecero “Kasabian” o “Whatever People Say I Am, That’s What I’m Not”, oppure se si tratta del solito, abile hype britannico.

Prima annotazione: la stupefacente capacità di scrittura, di immediata presa nonostante la complessità delle architetture. Tutte le canzoni sono potenziali singoli: “Colours To Life”, “Mesmerise” e “Move With The Season” su tutte, ma l’elenco potrebbe continuare. Quando i Temples non si perdono in passaggi troppo commerciali (il ritornello “The Golden Throne”, sdolcinato che neanche il tempo-delle-mele, oppure il riff di “Shelter Song”, troppo classico per suonare originale), i risultati sono prodigiosi pur nell’innegabile predisposizione al rimando-Beatles e Oasis. Fruibilità che però non significa commerciabilità spinta: il suono è sporco, gli echi amplificati, la batteria distorta, e queste caratteristiche non sputtanano “Sun Structures” in semplice prodotto da radio, svelandone piuttosto le velleità a confrontarsi con orecchie più attente.

Più complessa la questione sulla predisposizione dell’album a rappresentare lo spirito del nostro tempo: se nei Tame Impala, ad esempio, vi è maggiore ricerca per attualizzare la psichedelia che fu, nei Temples vi è un’adesione appassionata (e a tratti un po’ acritica) dei ’60s e della filosofia flower sottostante, il che si vede nelle strutture strumentali, nelle vocalità e in alcune scelte particolari come l’utilizzo dei flauti e di certi flanger. Ma probabilmente sono cavilli: nel momento in cui si è al cospetto di album così pregnante, che suona così naturale, certe considerazioni non sono così rilevanti o, meglio, potrebbero essere solo un problema di personalità in crescita per la quale c’è sempre la possibilità di miglioramento nel “secondo-difficile-album”.

Ora, invece, c’è solo da prendere nota del “primo-sorprendente-album” dei Temples.

(…to be continued…)

80/100

(Paolo Bardelli)

29 gennaio 2014