Pantha Du Prince / Jon Hopkins / Dj Koze, RoBOt Festival, Link, Bologna, 5 Ottobre 2013

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Perchè un “purista” dell’indie-rock’n’roll si deve ridurre a casa alle otto di mattina dopo una camminata di un’ora abbondante (pausa) sotto una pioggia incessante? Sarà l’onda lunga ibizenca, o il richiamo del grande evento elettronico nella città che mi ha adottato; di certo il RoBOt Festival vince, quando è di musica che si parla, nel gran finale di sabato 5 Ottobre al Link.

Innanzitutto i tre Dj cui ho potuto assistere – peccato per il forfait di Apparat – non sono semplici smanettatori di Mac ed effetti vari, sono performers a tutto tondo. E la differenza in questo senso con i protagonisti della mia esperienza estiva di clubbing, Loco Dice e Richie Hawtin Dj Resident dello Space, è piuttosto marcata. Non lo sottolineo in modo negativo, ognuno dei nomi sopraccitati esprime il proprio credo nel suo set e lo modella a seconda delle circostanze: nel caso dei re della tech-house la necessità è quella di creare una spettacolare colonna sonora per il popolo della notte, per il quale la musica è spesso un pretesto. Mi accorgerò che lo è anche al Link per molti, non mancheranno “quelli presi male”. Ma tornando alle cose serie, stasera semplicemente non ci si accontenta di far ballare, si dettano le tavole della legge. L’elettronica come filosofia di vita.

Pantha Du Prince inizia verso le due con il locale già stracolmo; pioniere della minimal-techno berlinese, utilizza i break con parsimonia a privilegiare crescendo continui nella sua musica; a distinguersi nel morbido tappeto scosso da una cassa poderosa sono soprattutto gli inserti di “Black Noise”, con “Stick To My Side” salutata dall’incontenibile entusiasmo del pubblico. Più da ascolto intellettuale che da ballo, anche se in pista non ci si risparmia. Jon Hopkins, fulcro della scaletta di artisti in programma, porta in dote un mood più ipnotico e allo stesso tempo dinamico, muovendosi tra cavalcate da rave (la già classica “Open Eye Signal”) e momenti dreamy (“Light Through The Veins”, già prestata ai Coldplay in “Life in Technicolor”). Il risultato è potente, sostenuto da break fondamentali per dare respiro e ripartire con maggior slancio; il producer londinese assale letteralmente la consolle e ne ricava il massimo risultato, come farebbe un Jimmy Page con la sua Les Paul. Dj Koze, inversamente a chi l’ha preceduto, agisce per sottrazione di tracce nei suoi pezzi e propone un sound più pulito e caldo che lo avvicina all’house e alla world music. Stefan Kozalla è il veterano dei tre, essendo attivo dagli anni novanta; il suo ultimo LP “Amygdala”, uscito nella prima parte dell’anno, vede ospiti tra gli altri Apparat e Caribou.

Alle sette Dj Koze è ancora lì, e senti che i bpm sono aumentati e che non finirà nulla neanche con le prime luci dell’alba. Col senno di poi, avrei dovuto fare chiusura e oltre. Verso le sei mi metto in attesa della navetta per il centro città che all’andata mi ha tradito (e fatto ripiegare sul taxi): più di mezzora d’attesa, niente. Saremo in più di duecento quando in lontananza vedo due pullman. Ora, le navette promesse sul sito e dagli organizzatori, sarebbero state sufficienti per poche centinaia di persone a fronte delle migliaia presenti al locale; va da sè che riesco a perderle entrambe. E così torniamo all’inizio del mio racconto (e a casa). Il dolce non è così dolce senza l’amaro, recitava uno dei miei attori preferiti.

(Matteo Maioli)

28 ottobre 2013