SURFER BLOOD, “Pythons” (Warner Bros, 2013)

surfer blood 200Dopo l’arresto con l’accusa di violenza domestica e percosse nel marzo del 2012 del leader John Paul Pitts, la promettente carriera dei Surfer Blood ha rischiato seriamente di venire stroncata sul nascere. Al termine del percorso di riabilitazione la corte della Florida ha archiviato il tutto nell’aprile di quest’anno con la contestata formula del plea and pass. Ciò nonostante, e sarebbe assurdo il contrario, le vicissitudini legali pesano tutt’ora come un macigno sull’immagine pubblica di Pitts, oltre a rendere oltremodo difficile un giudizio puramente soggettivo su “Pythons”, l’atteso secondo album della band di West Palm Beach.

Tentando di concentrarsi sull’aspetto puramente musicale, è evidente fin dai primissimi ascolti come la band tenti di ripercorrere la strada tracciata dal precedente “Astro Coast,” un riuscitissimo connubio di surf rock e power-pop, che odorava di nineties e di spirito adolescenziale. Questo “Pythons” invece, pur registrato insieme alla vecchia volpe Gil Norton (già produttore dei Pixies, influenza primaria della band), manca della verve necessaria a renderlo qualcosa di più che un ordinario album di pop-rock estivo.
Malgrado le melodie catchy abbondino pure qui, manca però il fremito, l’imprevedibile, quel certo je ne sais quoi che aveva fatto salutare l’esordio come la brillante opera prima di una band più che promettente. Qua è tutto estremamente pulito, perfetto, lineare. Innocuo, in definitiva.

La musica dei Surfer Blood a tratti è comunque ancora in grado di divertire; nella prima parte del disco in particolare si concentrano i pezzi più riusciti, come gli ammiccanti singoli “Demon Dance” e “Weird Shapes”, l’ottimo mid-tempo “I Was Wrong”, con il suo refrain contagioso, e la graffiante “Squeezing Blood”. Le turbolente vicende personali del frontman trovano spazio nelle liriche cupe e sofferte, che creano un’interessante contrapposizione con le solari armonie vocali e strumentali. Se all’inizio questo contrasto incuriosisce e affascina, alla lunga purtroppo a prendere il sopravvento è una spicciola attitudine college rock della porta accanto. Succede così che il disco entri pericolosamente in zona “colonna sonora di Dawson’s Creek”, con tutto quello che ne consegue.

In definitiva l’album, pur offrendo un solido appiglio su cui poggiare agli amanti di un pop rock easy e orecchiabile, non espande di una virgola lo spettro musicale della band, mostrando anzi un’ innegabile involuzione dal punto di vista del mordente e del songwriting. I brani di “Pythons” scivolano nel dimenticatoio con la stessa velocità con cui rimangono inizialmente impressi, facendo di questo disco un prodotto quasi usa e getta, a tratti piacevole certo, ma nulla di più.
Fast food rock.

58/100

(Stefano Solaro)

2 settembre 2013