NINE INCH NAILS, “Hesitation Marks” (Columbia, 2013)

61rF4QcFb3L._SL1002_Eccolo qua l’ottavo disco di studio dei Nine Inch Nails, il primo per la Columbia. E Reznor fa di tutto per rendere il prodotto inquietante, sin dal titolo. “Hesitation Marks” che, come ho letto, ha a che fare le prove necessarie per controllare se l’arma da taglio che si vuole utilizzare per fare male o farsi male è davvero affilata e offensiva. Quante volte mi è capitato di minacciare qualcuno con un coltello di acciaio che non tagliava manco il cornicione della pizza… Si rischia un atto mancato dalle profonde conseguenze ontologiche, ci si espone al controsenso morale, al dubbio epistemologico e soprattutto alla figura di merda. Sono problematiche queste di cui si dovrebbe occupare il Senato. Afferri una cosa che dovrebbe tagliare e non taglia! Ma in che mondo viviamo? Dove andremo a finire?

Lasciamo perdere la questione politica e torniamo al disco. Dopo le ribellioni edipiche al mercato discografico, al concetto di album, di indipendenza e di rock alternativo, dopo le collaborazioni con Atticus Ross, le colonne sonore, i premi e i side project, il signor Reznor ha pensato di tornare a registrare musica sotto la sigla NIN (ancora con Ross alla produzione e con l’apporto del rinomato Alan Moulder che mixa e mette le mani sulle orchestrazioni) e di farsi pagare e distribuire da una major. Niente di male in questo retrofront. Se ti pagano per fare un disco perché mai rifiutare? Il mercato è in crisi, la musica è in crisi, tutto è cambiato e non ci sono più i coltelli di una volta. È vero! Ma c’è ancora chi si trova bene con le categorie passate.

C’è chi un album lo vuole idealmente e fisicamente omologato, pensato in certi confini prestabiliti e che magari è pure disposto a spendere 15 euro. C’è chi desidera una collezione di canzoni come all’epoca del vinile e del cd. Magari con un senso o un umore comune, anche solo il fatto di essere pezzi registrati più o meno nello stesso periodo e con la stessa squadra. Poi pazienza se la maggior parte della gente la tua musica la ascolterà a singhiozzi su youtube o spotify, si accontenterà di venti secondi o poco più di anteprima o se ne fregherà del tutto… Hai fatto quello che dovevi fare per consegnare ai posteri un prodotto concreto, logico, storicamente coerente. E se hai fatto qualcosa di veramente importante tra trent’anni qualcuno il tuo disco lo andrà a recuperare. Pure perché ti sei preoccupato della grafica e hai chiamato Russel Mills a disegnare la copertina, una bella opera di arte materica. Ti sei scelto turnisti di spessore e hai passato un sacco di tempo a curare gli arrangiamenti. In somma ti sei impegnato, proprio per creare qualcosa di memorabile. Ma il punto è questo. L’ultimo dei NIN non è un album epocale. È un album che hanno già fatto. Anzi è una summa di ciò che di buono e di cattivo è già stato detto, soprattutto negli anni ’90.

Tutte le canzoni sono scritte da Trent Reznor, che pare essere ritornato a innamorarsi della propria depressione e a dialogare con l’electro IDM di qualche anno fa, tranne “The Eater of Dreams”, scritta da Reznor con il bolognese Alessandro Cortini e “While I’m Still Here”, sommamente ispirata a “Weary Blues From Waitin” di Hank Williams. Sin dall’inizio è chiara la volontà di mantenersi entro i limiti della ritrovata maniera. Mancanza d’ispirazione? Estrema coerenza verso quell’unico tipo di musica che Reznor sa concepire? Non lo so. Chi può saperlo? Lui cerca di intellettualizzare il tutto citando Platone… “Sono una copia di una copia di una copia”, ecco cosa canta in “Copy of a” il genio dell’industrial, come a mettere le mani avanti. E fa bene. Perché un po’ di coscienza non fa mai male. Resta il fatto che questa musica qui, questo rock elettronico, un tempo chiamato industrial metal, quel suono un po’ gotico e un po’ cafone, un po’ intellettuale e un po’ ignorante, nessuno lo sa fare come lui. Questo è il suono di Reznor. Questo è il suono dei Nine Inch Nails. I sintetizzatori su “Come Back Haunted” suonano magici e spettrali. Il rock di “Everything” è già un classico di pacchiana effervescenza chimica. “All Time Low” è a suo modo epica, nonostante la produzione volta a normalizzare gli eccessi e le “spirali” che fecero grande e profondo il passato del marchio. E che volete di più? Secondo me ci manca solo un coltello che taglia…

69/100

(Giuseppe Franza)

9 settembre 2013