BILL CALLAHAN, “Dream River” (Drag City, 2013)

bill callahanCallahan è il cantante fumoso che mette d’accordo tradizionalisti hillbilly, amanti del caffé senza caffeina e del folk senza folclore (che è un po’ come l’eroina senza morfina) e trentenni che si definiscono ancora “alternativi” nonostante la caduta delle Torri Gemelle e la separazione dei Sonic Youth (i drammi del 2000). Nato nel 1966, l’americano Bill ha una lunga, lunghissima, storia alle spalle di cassettine, autoproduzioni, ep, cd-quasi-capolavoro, cd-ma-questo-è-uguale-a-quello-di-prima, cd-con-la-chitarra-acustica-e-il-rumorino-di-fondo. Potrei-andare-avanti-così-all’infinito-ma-sto-iniziando-a-trovarlo-puerile-e-scomodo. Smetto.

La nuova uscita s’intitola “Dream River”. Prima della pubblicazione se n’è parlato un po’ in giro (e per “in giro” intendo internet, visto che nel vero “in giro” si discute solo di Higuain, di Berlusconi, della disoccupazione e del fatto che dovremmo trasferirci tutti in Angola che i soldi adesso stanno lì) dato che qualcuno ha detto che il suo nuovo disco sarebbe stato dub. La cosa aveva incuriosito qualcuno e scandalizzato qualcun altro. E la suggestione poteva starci. Il dub si porta a mostro. Pure gli Om, che hanno sempre fatto doom e stoner drogato, sono passati al dub… Ma vi garantisco che di dub qui non c’è nulla. Cosa c’è? Il vocione di Bill, molto Leonard Cohen, la chitarra di Bill, che sa essere carezzevole ma anche sbarazzina o triste o saltellante, la scrittura di Bill, minimale e americana, la passione di Bill, che è un grande sciupafemmine (stava con Cat Power e altre due o tre stelline del rock autoriale statunitense), la campagna del Maryland dove è nato e cresciuto Bill. Queste cose qui. La descrizione del contenuto musicale potrebbe grossomodo fermarsi qui, ma non sarebbe abbastanza. Mi sbilancerò in giudizi critici.

Primo. Le canzoni sono ben scritte, alcune hanno potenzialità popolare, usano stratagemmi narrativi interessanti (l’anafora, l’assonanza, il climax) e si muovono con stile. Ma la voce profonda, le parole intelligenti, le immagini forti e il tocco percussivo sulla chitarra non sempre bastano a creare il bello. Due. La profonda rilassatezza di certe musiche potrebbe trasformare tutto in riuscita atmosfera o noioso sottofondo. E questo capita troppo spesso. Se Bill Callahan sa scrivere canzoni come “Too Many Birds” e “Winter Road”, perfette nella loro semplicità perché storpiare una bella melodia con arrangiamenti stereotipati da country western (“Spring”) o fare l’intellettuale e il pedante (“Ride my Arrow”) fine a se stesso? Lo so io perché. Perché piace e si piace così. Notare la copertina. Un olio volutamente pasticciato e grumoso qui e lì, ma senza esagerare. Si cita Turner e si ammicca al paesaggio dilettantesco da negozietto d’antiquariato. Alto e basso. E lo si fa volutamente. Il cd è dunque perfetto per le scampagnate e le impressioni di settembre. Ma anche per le code in autostrada. Rurale e urbano. Vecchio ma ancora giovane. Lo-fi e altà qualità. Chi è stanco dalle mediazioni e da cose del genere, va da sé, stia lontano da prodotti del genere.

65/100

(Giuseppe Franza)

22 settembre 2013