IL TORQUEMADA, “Himalaya” (Paul Pastrelli Records, 2011)

“Tu lascerai ogni cosa diletta, più caramente; e questo è quello strale che l’arco dello essilio pria scelta. Tu proverai sì come sa di sale, lo pane altrui, e come è duro calle. Lo scendere e ‘l salir per l’altrui scale”. Forse non sarà la citazione più appropriata, ma è sintomatica della fatica che si prova quando si cerca di raggiungere un traguardo importante.
Tradotto nella lingua Torquemadiana significa affrontare un percorso lungo più di un anno, tra produzione estenuante, impegni extramusicali, dubbi sul nome del gruppo e continui cambi di prospettive. Raggiungere la cima di una vetta è una sensazione magnifica: davanti a noi si svelano scenari elettrizzanti, spiazzanti e immensi.

Ogni viaggio che si rispetti è legato al proprio zaino; all’interno ci troviamo qualche disco degli Shellac, qualcosa dei One Dimensional Man, l’immancabile “Atom Heart Mother” e “Demon box” dei Motorpsycho.
Proprio quest’ultimo ci permette di tracciare una cartina sulla struttura di “Himalaya”: l’apertura acustica che è direttamente legata alla riesecuzione elettrica nel finale, brani bomba e pezzi dilatati in cui le distorsioni vengono filtrate attraverso la complessità di un certo prog-rock (importante è l’apporto della violoncellista Francesca Arancio).
Da non sottovalutare il coraggio di riproporre queste influenze in italiano; lingua che, ultimamente, sta tornando a rivendicare il suo ruolo primario anche all’interno di un contesto prettamente alternativo.
“K1”, pur essendo riconducibile alle loro produzioni precedenti, stupisce per la sua capacità di musicare la sensazione di fatica, filtrata attraverso un’esecuzione furiosa. “Condolisa” e “Il baricentro”, pur essendo canzoni in antitesi tra di loro, hanno la capacità di essere gustosamente accessibili, vuoi per l’ottima produzione vocale, vuoi per le aperture musicali che creano respiro all’interno dell’urgenza espressiva trabordata per poco più di un’ora. “K2” non è solo il nome di una montagna, una cima, un traguardo: è il picco creativo dell’opera, uno scontro incessante di rumorismi, virtuosismi di scuola Albiniana, prog violentato, rabbia sputacchiata e ingurgita per più volte.

Disco di spessore, che conferma l’ottimo stato di salute della scena lombarda.

74/100

(Matteo Ghilardi)

16 Maggio 2011

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