AA.VV. – Primavera Sound 2010 (Barcellona) (sabato 29 maggio 2010)

Top 5

1) Grizzly Bear

2) The Field

3) Atlas Sound

4) Real Estate

5) Ben Frost

Neanche il tempo di svegliarsi che il sabato del Primavera offre già qualcosa in fascia pre-pomeridiana. Al Parc Joan Mirò ci sarebbe il Primavera Al Parc con esibizioni gratuite di band comunque previste nel cartellone principale. Un modo intelligente per coinvolgere una città evidentemente invasa, come dimostrano braccialetti, facce e look, da turisti festivalieri.

In un’atmosfera bucolica da rifugiati dall’afa metropolitana, i due minuscoli palchi piazzati nei giardini adiacenti alla celebre arena delle corride di Plaza de Toros, sono un’ottima occasione per recuperare gli show di band trascurate per sovrapposizioni varie al Parc del Forum. I terribili Thee Oh Sees, nome-clou della scena garage punk di San Francisco trovano improbabili energie in considerazione dell’orario della loro selvaggia esibizione. Si recuperano anche i Circulatory System, la band della Georgia formata da Will C. Hurt dopo lo scioglimento degli Elephant Six Collective. Una psichedelia piacevolmente disturbante dà un che di mistico a questa anomala situazione urbana. Pochi i presenti, vuoi per l’orario, vuoi per l’afa che spingerebbe tutti verso le spiagge di Barceloneta. Ma la militanza viene prima di ogni cosa. Gli A Sunny Day In Glasgow, altro nome di punta della nuova scena di Philadelphia, sarebbero quanto di più notturno potrebbe offrire il festival. Le tenui linee vocali dell’asiatica Jen Goma nei liquidi e atmosferici intrecci dream-pop del sestetto affascinano e abbassano per quanto possibile la temperatura. Che torna rovente sull’altro stage, con i nebulosi Ganglians risposta californiana agli Psychic Ills. Lunghi e martellanti trip psichedelici, panorami desertici da New Mexico assimilabili ai Black Angels.

La terza giornata del Primavera può iniziare. Linea gialla della metro, direzione La Pau. E si torna alla base. Ci sarebbero i locali Lydia Damunt ad aprire dal palco Pitchfork. Il loro tributo ai Sixties rimetterebbero l’anima in pace. Ma in tema con questa straniante confusione psichedelica, nulla di meglio di The Psychic Paramount, può fare da prologo alla lunga giornata. I vibranti sperimentalismi del collettivo newyorkese. In questo Primavera sempre più a stelle e strisce nello sfondo marittimo dell’ATP Stage sono il prologo ideale. Che scivola nell’ottimo spettacolo dei Real Estate, già conosciuti da Kalporz nell’unica data italiana di febbraio a Forlì. Inutile fare paragoni di notorietà e popolarità. Lanciati da Pitchfork, meritatamente acclamati da una platea già nutrita per le sei di pomeriggio. I ragazzi hanno stoffa considerata l’età media e la complessità della loro formula. Dal vivo danno una carica più ruvida alle loro suite psico-balneari figlie dei Galaxie 500 quanto del pop acustico dei Sixties. Le chitarre stridenti e figlie del surf fanno scivolare i brani spesso in prolungati intermezzi strumentali spezzati dalla voce di un Martin Courtney quanto mai adata al momento della giornata e al clima. “Suburban Dogs”, “Beach Comber”, “Fake Blues” rivelano una maturità incredibile che fa del quartetto del New Jersey uno dei nomi più validi del momento.

Il palco principale è invece aperto dai Dr.Dog, altro nome sotterraneo dell’East Coast. Ignorato dai più il suo rock dai tratti fortemente anni ’90, curato negli arrangiamenti, immediato ma al contempo dissonante fa molto Guided By Voices. Il quartetto funziona e intrattiene bene come intermezzo pre-Atlas Sound, senz’altro uno degli act più attesi della giornata. Bradford Cox, non contento del successo dei Deerhunter, già protagonisti di due edizioni del Primavera, dopo due dischi ineccepibili che hanno dato una scossa alla scena rock americana, è tornato sulla scena con il seguito del suo esordio solista. “Logos” ha segnato la storia musicale di fine-Anni zero con le sue oniriche e minimali ballad semi-acustiche, perfetto seguito dei Real Estate come atmosfere e sonorità. Il rachitico ed eccentrico leader dei Deerhunter è sul palco da solo. Sample, voce e chitarra. La sua timidezza quasi proverbiale scompare quando imbraccia la chitarra e regala il meglio del suo repertorio solista. “Screens”, “Shelia” e soprattutto “Walkabout” incantano non poco, malgrado nell’ultima un’armonica faccia da surrogato all’assenza di Noah Lennox degli Animal Collective che tutti si attendono vista la sua presenza nei panni di Panda Bear. Un Dylan shoegaze sembra una bestemmia un po’ azzardata. Ma vengono difficili altre descrizioni. In fondo per colpa sua ci si è persi il NEU-revival offerto dalla suite molto Pavarotti & Friends di Michael Rother presenting NEU! Music.

I Mujeres sembrano l’unico motivo utile per sostare più del dovuto nell’area balneabile riservata alla stampa dietro al palco Adidas. Unica risposta possibile ispanica ai Black Lips sono molto apprezzati in patria e si vede. A tratti il loro virtuale tributo alla più famosa garage-band della Georgia, lambisce il plagio. Un paio di brani sono sufficienti prima di spostarsi per un assaggio della stessa durata per Sian Alice Group. Il combo psichedelico lanciato dalla Social Registry, etichetta newyorkese di riferimento per il genere e soprattutto dalle collaborazioni con gli Jason Pierce e per il supporto agli Spiritualized, gli inglesi meno inglesi del festival, ricreano questa coltre di asfissiante stordimento lisergico sul palco più psichedelico del Parc. Un ATP stage mezzo vuoto cede subito alle lusinghe magnetiche dei riverberi della band. Il tramonto scende sul mare di Barcellona con il canto da sirena di Sian Ahern che affonda in un sabba di ritmiche ancestrali, chitarre urlanti e feedback.

Si rischierebbe la prematura crisi mistica o la depressione se non arrivassero The Slits a risollevare i toni e il morale. A dispetto degli anni la colorata punk-band di riot grrrl due decenni prima delle riot grrrl sprigiona una carica insospettabile. I roteanti headbanging di una Ari Up, una delle donne dai dread più lunghi del mondo, che saltella come una ragazzina mettono di buon umore. “Shoplifting”, la cover “I Heard It Through The Grapevine” di Tina Turner e il classico “Typical Girls” sono l’altra faccia del combat-punk di fine anni ’70 nella Londra dei Clash e dei primi anni di thatcherismo. La risposta ska a Siouxsie & The Banshees in imprendibili chitarre in levare disegna scorci molto calypso di quella Brixton. A suo modo intenso ed emozionante. Chi non salta con loro è un senza cuore.

Delude invece Florence + The Machine l’unico strappo alla regola col mainstream dell’edizione. Le si danno tre brani di fiducia, ma il suo show si apre quantomai fiacco e pretenzioso. Rimandata. Nella tripla sovrapposizione più dolorosa del festival, tra The Antlers, The Drums e Grizzly Bear si decide di godersi gli ultimi. Scelta che non si rivela sbagliata. Il quartetto di Brooklyn eleverà l’arena del Ray-Ban su una dimensione parallela fiabesca e ovattata per il concerto migliore dei tre giorni, eguagliato soltanto dai Pavement della reunion.

Nulla di cui stupirsi. I Grizzly Bear con la loro ineffabile formula che attualizza il pop psichedelico anni Sessanta con trovate tra l’orchestrale e il post-moderno è una delle migliori band dei nostri tempi. Tre album, almeno due capolavori assoluti, “Yellow House” e lo splendido “Veckatimest” dello scorso anno. Il teatro all’aria aperta del quartetto si apre con “Southern Point” ed è subito amore. L’onirismo agrodolce di “Knife”, la pubblicitaria “Two Weeks”, gli sbalzi d’umore di “Ready, Able”.

Le voci di Droste e Rossen si amalgamano in armonizzazioni vocali della migliore scuola Beach Boys. Le scelte degli arrangiamenti del polistrumentista e bassista Chris Taylor si esaltano nella dimensione live. I rintocchi di Christopher Bear fanno perdere il fiato. Estremamente curati e compositi, votati al crescendo e al pathos senza mai scivolare nel mero barocco. “Cheerleader” e “Lullabye” lasciano a bocca aperta. “While You Wait For The Others” è una della canzoni più belle degli ultimi anni. E poi ancora “Fine For Now”“I Live With You”, un’ancestrale “On A Neck, On A Spit” fino all’elegia finale di “Fix It”.

Canzoni, la loro abilità di scrivere canzoni con uno stile ormai consolidato e inconfondibile spiega la grandezza dei Grizzly Bear. Strazianti, commoventi, avvolgenti. Un’ora e mezzo difficile da dimenticare.

Cambio brusco di atmosfera con i Charlatans performing “Some Friendly”. Cosa chiedere di più? Nulla. In fondo è il loro album migliore. Tim Burgess sembra il figlio di Tim Burgess. La resa live è all’altezza di uno dei maggiori gruppi della transizione verso il brit degli anni ’90. “You’re Not Very Well” e “White Shirt” valgono la serata. Prolungate il giusto tra svisate, riverberi e un hammond assassino. “The Only One I Know” viene a sorpresa posposta rispetto all’ordine delle tracce del loro album di riferimento. Ma è comunque ciò che tutti aspettano più di tutto. E non delude le attese.

I No Age diventano così un intermezzo tra l’intro e il bis dei Charlatans. Senza l’esibizione dei Japandroids avrebbero un impatto più forte. Il duo di Los Angeles fa comunque il suo effetto. Carica a tratti primordiale. Perfetti nei momenti più introspettivi tra lo shoegaze e lo shitgaze. Sanno suonare ma fingono di non saperlo fare. La formazione a tre arricchisce il suono in maniera sintetica. Vedi la lunghissima introduzione di quello che è diventato un piccolo classico underground, “Teen Creeps”. Dal prossimo album è lecito attendersi numeri.

Le Dum Dum Girls sono venute fuori con un simpatico revival wave figlio di Siouxsie quanto degli eroi post-punk. Dal vivo esce fuori un guazzabuglio dissonante. Voci poco in sintonia. Da risentire. A proposito di anni ’80, ci sarebbe anche Gary Numan nel lontanissimo palco Vice. Nella calca di avventori e di nostalgici darkettoni si fa strada a fatica. Lo show dell’ideale mentore di Trent Reznor si trasforma in un nebbioso spettacolo d’altri tempi. Industriali senza troppi compromessi mettono in cantina compromessi synth-pop di sorta rendendo ancora più buia la nottata di Barcellona.

Come tirarsi su? Niente sarebbe meglio dei Pet Shop Boys. Il nome forse più anomalo della programmazione mette su un circo patinato e kitsch che ci sbatte con violenza in un panorama di suggestioni Eighties. Un revisionismo fiero, da apologia di certe sonorità per troppo tempo snobbate, messe in un unico calderone di trash anni ’80-’90. Due cubiste. Scenografia impeccabile. Resa difficile da contestare. Poi quando arrivano “Suburbia”, “Go West”, “It’s A Sin”, “New York City Boy”, “West End Girls” come reagire se non ballando con un sorriso beota sulle labbra? Un momento revival che si trasforma in un viaggio nella macchina del tempo. A suo modo indelebile.

L’intermezzo di una delle leggende del reggae, Lee Scratch Perry, l’altra anomalia rispetto al tenore del programma, rilassa e fa da sottofondo a una birra. La tecnica di rilassamento definitiva è invece sedersi di fronte al mare tenuemente illuminato alle spalle dell’ATP stage e abbandonare se stessi nell’impagabile live di Ben Frost. Dalla sua elettronica ambientale e densa di echi si propagano riverberi ondeggianti, da ideale chiusura di festival. E invece no. Un altro salto negli anni ’90 con gli Orbital. La combo dei pioneri della rave ridisegna contesto e situazione. Non ci si vorrebbe fermare mai e invece bisogna abbandonare le pirotecniche improvvisazioni dei fratelli Hartnoll per dare i giusti tributi a uno dei più degni eredi della techno di qualità. In inedita formazione con una ritmica vera, vale a dirsi con tanto di basso e batteria, lo svedese Alex Wilner, ai più noto come The Field diventa la chiusura perfetta in questa lunghissima maratona di fine maggio.

Le sue eteree trame dream accompagnano i reduci verso l’ultima alba della tre-giorni. Incessanti session che fanno spegnere il cervello fino al capolavoro “Everday” che uccide degnamente i primi dieci anni di Primavera Festival.

Chiedere qualcosa di meglio per il prossimo anno? Arduo. Ma vedrete, ci riusciranno ancora una volta. A dicembre fate pure l’abbonamento a scatola chiusa.

Kalporz si assumerà ogni responsabilità per lamentele e delusioni.

E nel frattempo da tale overdose passerà per qualche settimana la voglia di eventi live. Il Primavera Sound è in fondo anche questo.

  1. Southern Point
  2. Cheerleader
  3. Lullabye
  4. Knife
  5. Fine For Now
  6. Two Weeks
  7. Ready, Able
  8. I Live With You
  9. While You Wait For The Others
  10. On A Neck, On A Spit
  11. Fix It

(di Piero Merola)

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