AA.VV. – Primavera Sound 2010 (Barcellona) (giovedi’ 27 maggio 2010)

top 5

1) Pavement

2) Fuck Buttons

3) Broken Social Scene

4) Surfer Blood

 

5) The XX

Tralasciando le usuali elucubrazioni da ubiquità utopica, i festival non sono fatti per vedere un concerto per intero. Impossibile vedere tutto. Così saltano dalla personale tabella di marcia Tortoise, Circulatory System e un big new name del calibro degli Sleigh Bells sciaguratamente piazzati durante i Pavement. Che bisogna vedere invece per intero, a undici anni dalla loro uscita di scena. Una questione di rispetto e riverenza, se non altro.

Evitando di raccontare tutto in una fredda sintesi stage per stage e seguendo un rigore più o meno cronologico, il battesimo del fuoco è per i Biscuit, nome di punta nel panorama underground spagnolo. Psichedelia barbuta e anni settanta che non dispiace. Sempre dal palco Pitchfork, in un bilancio complessivo il palco dal livello più alto a dispetto della minore notorietà di alcuni nomi. Quali i Sic Alps che seguono, accentuando i toni più psicotici. L’atmosfera si fa torbida nell’assolato pomeriggio catalano. E arrivano anche le nubi insieme agli scozzesi. Dal palco principale che prende il nome dalla birra sponsor delle serate, la San Miguel (un po’ come se i Pavement suonassero in un Peroni Stage), i BIS. A volte ritornano. Il loro entusiasmo fa tenerezza. Sfigati erano. Sfigati rimangono. Con qualche capello in meno, gli outcast del brit-pop scozzese, offrono i loro tormentoni (“Eurodisco”, “Strabright Boy”) “Star. Roba da Ting Tings 15 anni prima dei Ting Tings. Manda Rin sa di mamma che non vuole invecchiare più che di tardona fashion. Tutto sommato divertono e fanno divertire.

I Wave Pictures sono una di quelle band inglesi che non spacceresti mai per americane. Il loro scanzonato brit-pop, gentile e mai eccessivo, diventa l’ideale antipasto pre-serale nel variegato programma del secondo palco principale, il Ray Ban. I loro sottofondi post-Smiths con il mare e il tramonto di sfondo hanno un loro perché. Senza infamia, né lode.

Sull’ìsolato palco Vice intanto i Monotonix offrono quello spettacolo da selvaggi freakettoni che ci si attende da loro. Gli improbabili rabbini del garage rock più bieco al solito piazzati in mezzo al pubblico. Un live “itinerante” quello del trio di Tel Aviv con la batteria che si muove nella gente in uno stage diving quasi esasperato. Tanto brutti, quanto energici.

Sorpresa assoluta della giornata i giovanissimi Surfer Blood che infiammano il palco Pitchfork. Il quintetto dalla Florida tiene il palco a meraviglia dimostrando quella personalità che sul pur ottimo “Astro Coast” era messa un po’ in secondo piano dai chiari rimandi a Pavement e Weezer. “Swim”, “Take It Easy” suonano già come classici. Le chitarre sanno di Dinosaur Jr versione balneare e sono tra le migliori apprezzate nella prima giornata di Primavera. “Twin Peaks” e “Harmonix” mostrano una grande maturità compositiva. Saranno famosi (che poi oltreoceano lo sarebbero già).

In uno sbalzo spazio-temporale alienante, ci si ritrova davanti a Mark E. Smith e a ciò che resta dei The Fall. Onorarli della propria presenza è un dovere morale. Uno Smith più vecchio di quel che è consumato e a suo modo inquietante, non perde quell’aura profetica. A metà strada tra un senzatetto che si avvicina alla terza età dopo aver venduto l’anima all’alcol e un poeta nero da teatro espressionista. Blatera e farnetica tra le cupe trame degli eroi della wave inglese più cupa e senza speranze. Tra vecchi classici, nuove perle e il tributo ai Sonics (“Strychnine”) uno show a suo modo emozionante. Nostalgia a palate.

Tornando nel presente i devastanti Titus Andronicus vanno giù senza freni con il loro graffiante lo-fi dai contorni punkettoni. “A More Perfect Union” e “No Future” inevitabili inni da sbronza hipster. Basterebbe guardarli tra camicioni, frontman con barba incolta per capire la portata generazionale del tutto.

Di tutt’altro tenore lo spettacolo targato The XX. I veri eredi dei Young Marble Giants hanno messo su una formula e un sound peculiare. Del loro esordio si è parlato e scritto abbastanza. La pioggia che scende leggera sull’arena del Ray-Ban stage rende il tutto più mistico e onirico. Come se non bastasse. Dall’intro che pare scritta da Robert Smith attraverso le gemme di minimalismo e algido fascino wave dell’esordio, il terzetto londinese nel bene o nel male sta segnando l’inizio degli anni Dieci. “Crystalised”, “Basic Space”, “VCR” non sembrano risentire delle dimensioni dello stage e delle ventimila presenze in platea (e quindi di almeno diciottomila fotocamera). Due X in neon accompagnano degnamente il primo crepuscolo del Primavera 2010.

Un’altra giovanissima band a stelle e strisce, The Smith Westerns con un rockettino dalla fierezza quasi glam e un sound a tratti straripante, inganna l’attesa dei Superchunk nome di punta dell’indie americano – quello vero – degli anni ’90. I quattro del North Carolina, un po’ come i sopra citati BIS, fanno quasi tenerezza. Band coi controcazzi che per vari motivi restano ai bordi della notorietà malgrado qui in Spagna sembrino avere un seguito non da poco a giudicare dalla dimensione del font col loro nome nelle locandine del festival. In “Precision Auto” chiamano un’altra vecchia gloria anni Novanta, quale Tim Harrington dei Les Savy Fav (in programma il giorno dopo). Ed è un caldo delirio stile Husker Du. Con tutto il rispetto per la viva scena di Chapel Hill, North Carolina viene da pensare cosa si direbbe oggi di loro se fossero nati altrove.

In questa alternanza tra nostalgico passato e presente d’alta qualità, i Wild Beasts, mosca bianca britannica nell’ovvio predominio a stellestrisce del Pitchfork-pensiero. Il secondo album “Two Dancers” è stato uno dei momenti più alti del 2009 britannico. I falsetti di Hayden Thorpe si ergono al cielo tra le eleganti trame della band di Kendal. Ammalianti.

Seguendo questo filone mainstream nel Primavera 2010 dell’indie nord-americano, uno dei momenti più attesi di oggi resta quello del ritorno sulla scena dei Broken Social Scene. Il supergruppo di Toronto pur non ripetendo i fasti dei due dischi precedenti è tornato alla ribalta con un disco a suo modo ineccepibile. Epici con quel piglio cazzone e alla mano da canadesi doc che evita derive barocche quantomai dietro l’angolo nella composita formazione della band. I due eroi medi e quotidiani Brendan Canning e Kevin Drew dirigono con maestria l’allegra brigata canadese che ha rinverdito i fasti dell’indie (sempre quello vero) degli anni Zero.

La nuova “World Sick” è il giusto prologo che scalda le chitarre e la platea. L’insistente groove da rito pagano di “Stars and Sons” mette subito il sigillo sulla serata. Classico dal classico “You Forgot In People” da cui sono peraltro ripescati per la gioia delle orecchie la sonicyouthiana“Cause=Time” e una devastante “KC Accidental” che fa scendere giù il cielo come un sipario. Per il resto tra le nuove spicca l’elegia siderale di “All To All” che si avvale della comparsata di Owen Pallett dei Final Fantasy (come del resto “Texico Bitches” di Spiral Stairs dei Pavement). Gli incastri chitarristici sono da unici veri eredi dei Sonic Youth. Quelli della seconda fase, che i Broken Social Scene da ideali allievi superano senza vergogna. “7/4 Shoreline”, “Fire Eyed Boy” e lo straripante finale di “Meet Me In The Basement” sono una prova inconfutabile. La saggezza cantautorale da tranquilloni canadesi a braccetto con una sperimentazione rock mai sopra le righe e soluzioni dissonanti da dieci e lode. “Alla nostra epoca c’erano i Broken Social Scene”. Lo diremo con orgoglio.

Si andrebbe volentieri a casa, ma il bello sarà pure a tratti già arrivato, ma in parte deve ancora arrivare.

Altra rappresentanza diplomatica britannica nel palco Pitchfork tocca a The Big Pink. Duo che ha saggiamente e furbamente fatto propria l’eredità dello shoegaze inglese caricando saturazioni e distorsioni di martellate electro, ha segnato come i Wild Beasts il 2009 nazionale. Inutile fare gli snob. I pezzi ce li hanno. La carica live e i volumi anche. “Too Young To Love” mette a rischio l’affascinante struttura dal sapore post-industriale dell’unico palco al coperto. “Velvet”, il tormentone “Dominos”, l’acida carica-Spacemen 3 di “Crystal Visions”. Le orecchie iniziano subito a ronzare. E non può che essere un bene. In fondo siamo solo a mezzanotte. Promossi a pieni voti.

Ci sarebbero i Mission Of Burma, ma inutile negare che i Pavement siano la causa di forza maggiore principale della prima serata del Primavera. Il loro attesissimo ritorno sulla scena, in parte previsto un anno fa. Della serie, solo loro potrebbero rendere l’edizione del 2010 degna dell’edizione precedente. Nessun appunto. All’una in punto la cult-band di Stockton come se nulla fosse conquista il palco e con un fulminante uno-due “Cut Your Hair”-”Trigger Cut” sembra mettere le cose in chiaro. Senza di loro molte delle cose che ascoltiamo oggi non ci sarebbero. Probabilmente neanche il Primavera ci sarebbe. Con i suoi palchi, la sua fauna pseudo-alternativa, i suoi nerd, i camicioni, le riviste che ideano le scalette nei diversi palchi. 23 pezzi in meno di due ore da ultimo desiderio. Come se non fossero passati quasi vent’anni e dieci dal loro abbandono delle scene, Malkmus e soci sorprendono per coesione e spirito. Ce n’è per tutti i gusti e da tutti gli album. In unico flusso di istantanee dagli anni Novanta che ha probabilmente i suoi momenti da cineteca nelle altre accoppiate “In The Mouth Of Desert”/”Kennel District” (con Kevin Drew dei Broken Social Scene) e “Silence Kit”/”Elevate Me Later” in un sogno che ricalca l’inizio di “Crooked Rain, Crooked Rain”.

Ma è difficile, impossibile, fare delle gerarchie. Nel vedere la soddisfazione negli occhi di Mark Ibold, le schitarrate da teenager di un Malkmus sorprendentemente al top della forma e gli urlacci di un Bob al solito mattatore del palco, c’è quasi da commuoversi. Ogni brano fa storia a sé. Si legga la scaletta alla fine dell’articolo per farsi una vaga idea. Così fino a un bis d’annata, con l’acclamatissima “Gold Soundz”, il break di “Shady Lane” e una drammatica “Stop Breathing” da pelle d’oca.

Salto nel futuro abbastanza brusco per godersi il viaggio verso il nulla dei Fuck Buttons. Un’isterica, interminabile, angosciante “Surf Solar” coi suoi loop epilettici guida un Ray-Ban stage subito annichilito nell’oscurità e oltre. Il duo di Bristol ha dato una svolta dai tratti quasi dance all’originale post-rock dai tratti elettronici e avveniristici con l’ultimo album. “Tarot Sport” è l’INLAND EMPIRE della musica contemporanea. Tribalismi incessanti tracciati da riverberi e synth opprimenti in un’appassionante odissea sonica lunga oltre un’ora. Il rumorismo non è mai fine a se stesso ma segue delle traiettorie ben definite nella loro tendenza ultraterrena e inconsistente. Le consolle di Andrew Hung e Benjamin J. Power mettono in scena il futuro. Non resta che perdervisi senza riserve.

Di tutt’altro tenore l’atmosfera estiva e balearic del fenomeno di punta della scena spagnola d’esportazione. Il fresco electro-pop dai risvolti sovente house e anni ’90 dei Delorean alleggerisce i toni. “Season” e “Stay Close” hanno tutti i requisiti per candidarsi a tormentone alternativo della prima estate degli anni ’10. Apprezzati dagli indigeni quanto dai forestieri, i baschi fanno la loro figura. Che anche la Spagna stia surclassando l’Italia è presto per dirlo. In fondo anche i Bloody Beetroots sono nell’illustre listone del Primavera. Resta il fatto che l’originale via spagnola a percorsi paradossalmente tracciati qualche anno fa da nomi electro svedesi, funziona e i Delorean meritano i diffusi elogi nei loro riguardi.

Da chi invece ti aspetti il botto per concludere al meglio la lunghissima giornata al Parc Del Forum, finisci per essere smentito. E parliamo del progetto Moderat che ha unito con un esordio forse sopravvalutato, ma comunque molto valido, le fredde intuizioni dreamy dell’elettronica di Apparat con le spigolose trame che più ammiccano alla techno dei kraak-crucchi Modeselektor. Lo show inizia in ritardo per problemi tecnici. I volumi e la distribuzione della platea nel rettangolo da campo di calcetto con tribuna laterale del palco-Vice fanno il resto. E lo spettacolo non decolla nel disturbante chiacchiericcio di spagnoli che si ricordano della loro peculiarità chiassosa soprattutto negli spettacoli elettronici notturno. Un vero peccato, per Sascha Ringe e i due occasionali soci con cui si è diviso l’onore di aprire ai Radiohead in alcune date dell’ultimo tour della band di Oxford. Alla prossima… In una cornice per quanto possibile più favorevole alle loro sonorità.

L’irriducibile Dr.Kiko, altro rappresentante italiano, con le sue inimitabili selezioni, diventa una valida alternativa per l’ultima bevuta.

BROKEN SOCIAL SCENE

  1. World Sick
  2. Stars and Sons
  3. Texico Bitches (with Spiral Stairs)
  4. 7/4 (Shoreline)
  5. Fire Eye’d Boy
  6. Forced to Love
  7. All to All
  8. Sweetest Kill
  9. Cause=Time
  10. Water in Hell
  11. Ungrateful Little Father
  12. KC Accidental
  13. It’s All Gonna Break
  14. Meet Me In The Basement

PAVEMENT

  1. Cut Your Hair
  2. Trigger Cut
  3. Rattled By the Rush
  4. Father to a Sister of Thought
  5. In the Mouth of a Desert
  6. Kennel District (with Kevin Drew)
  7. Grounded
  8. Silence Kit
  9. Elevate Me Later
  10. Spit On A Stranger
  11. Unfair
  12. Starlings of the Slipstream
  13. Fight This Generation
  14. We Dance
  15. Conduit for Sale!
  16. The Hexx
  17. Here
  18. Stereo
  19. Two States
  20. Range Life

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  1. Gold Soundz
  2. Shady Lane
  3. Stop Breathin’

SUPERCHUNK

  1. Throwing Things
  2. Detroit Has a Skyline
  3. Animated Airplanes Over Germany
  4. Learned To Surf
  5. Iron On
  6. Water Wings
  7. Digging For Something
  8. Driveway to Driveway
  9. The First Part
  10. Cast Iron
  11. Precision Auto
  12. Slack Motherfucker
  13. Hyper Enough

(di Piero Merola)

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