JULIE’S HAIRCUT, Our Secret Ceremony (A Silent Place, 2009)

“After Dark, My Sweet” è stato solo il primo passo. Quando avevo intervistato, per un’altra rivista, la band di Sassuolo, mi avevano appunto anticipato che l’avventura psichedelica era solo la partenza di un cammino che avrebbe rinnovato completamente l’etica e l’estetica dei Julie’s Haircut. “Our Secret Ceremony”, a conti fatti, è la conferma di quanto detto. Il risultato di un processo di maturazione musicale che mi porta ad affermare, senza particolari problemi, di avere a che fare con la band italiana più ambiziosa in circolazione. Nell’underground, infatti, ben poca gente ha toccato le vette di coraggio del qui rinnovato collettivo emiliano. Sì perché alla ricerca sonora si aggiunga una ricerca formale che ha portato la sigla a “sganciarsi” dai vecchi cliché di banda per abbracciare l’idea di collettivo aperto, dove trovano spazio le idee più disparate per rincorrere quella lontana idea attraverso la musica.

Già. La musica. “Our Secret Ceremony” è un lavoro ambizioso perché molto lungo (novanta minuti spalmati su due dischi e quindici composizioni), molto sfaccettato, multi-strato che travalica la definizione di genere, trascendendo i confini e l’universo indie-main-pop-e-quel-che-vi-pare. Ci sono dentro i Can e la Germania del matrimonio tra psichedelia e musica colta. Ci sono dentro gli Stereolab e i suoni vintage e retro-futuristi. Ci sono dentro i Primal Scream, gli Spacemen 3 e i loro sogni malati. Ci sono dentro i Blonde Redhead, i Sonic Youth e la New York multiculturale. Ci sono dentro riferimenti alla cultura popolare (Kate Moss) e sentimenti espressi attraverso note che fluiscono liberamente lasciando la voce in secondo, terzo, quarto, quinto piano. Sembra quasi di voler inseguire l’utopia del linguaggio universale. C’è chi lo fa attraverso la letteratura, c’è chi lo fa attraverso il cinema e c’è chi ci prova attraverso la musica.

Mi rendo conto di esagerare. A legger le righe di cui sopra sembra di essere davanti a “The Piper At The Gates At Dawn”, a “Tago Mago” e “The Perfect Prescription” “tutti assieme” ed è chiaramente un’iperbole. Ma in un universo affastellato di mediocrità, l’uscita di un album del genere è oro puro. È epifania. È fortuna. Quasi un miracolo che questo sia accaduto in Italia: dove lo mode arrivano con cinque anni di ritardo, dove si timbra il cartellino, dove si fa il compitino. Un bel calcio al luogo comune, all’indie-rock e ai suoi stereotipi. Un disco dalla portata ideologica.

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