La stagione d’oro del rock italiano era già finita da qualche anno, spegnendo un po’ di luci anche su Livorno, da dove erano arrivati Virginiana Miller, Snaporaz, Tangomarziano…Eravamo tutti impegnati a guardare altrove, quando uscì il primo disco degli Hollowblue, “What you left behind”, e avevamo torto. Se fossimo stati attenti, avremmo trovato le esplosioni lontane delle chitarre di “Black birds” ad accoglierci, con una voce profonda circondata da tensione che cresce ad arte. Una tensione astratta, elegante, quasi letteraria: la stessa che attraversava una title-track simile alle fantasie notturne dei Devics, che portava la voce a distorcersi e gli archi ad allungarsi in un sibilo lontano, stilizzando i primi Goldfrapp, in “Triplex sin”, o a tingersi di riflessi jazz tra le chitarre, le spazzole e il vibrafono di “Baker”.
Attenti all’atmosfera da creare forse più che alle canzoni stesse, gli Hollowblue muovevano qui i primi passi, cercando la complicità di un loro simile, Anthony Reynolds dei Jack. Primi passi tutt’altro che trascurabili, fatti di atmosfere ovattate che si continuano a cercare ancora, a distanza di anni.
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