A colloquio con i Ministri

Hanno sfondato il muro di gomma dei media e del sistema discografico e ora cercano di rosicchiarlo dall’interno, minimizzando e dissacrando… ventenni presuntuosetti o il gruppo di cui l’Italia aveva bisogno? Nell’indecisione, ammiratori illustri, direttori di testata e un gigante della discografia si sono aggiunti a chi già scommette sul loro futuro. Noi invece preferiamo concentrarci su un interessante presente…

(Ndr: l’intervista che andrete a leggere è una “riduzione scritta” della chiacchierata tenuta con la band allo Spazio 211 (TO) nel dopo-concerto di Sabato 5 gennaio. Mi scuso preventivamente con gli interessati per eventuali omissioni e/o errori di trascrizione, dovuti alla cattiva qualità delle registrazione, e ringrazio Luca “Don Wud” Benincaso per l’assistenza tecnica.)

Perché Ministri?
Tutto è nato quando decidemmo di chiamarci “Ministro del Tempo”, il nostro antico nome. Una sera che giravano un sacco di cannoni ci siamo detti: “ok, mettiamo che ci sia un Ministro, un’Istituzione che alle 23 e 59 di ogni giorno estrae il nome di quello dopo. Fino alle 23 e 59 tu puoi sperare nella possibilità che il giorno dopo sia Domenica, o che il giorno dopo sia Natale…”. Sarebbe una cosa ottima per le pubblicità, avrebbero un momento istituzionale alla sera in cui tutti sono costretti a guardare la televisione e ognuno potrebbe scommettere su cosa farà o non farà l’indomani. Potresti anche decidere di non fare un cazzo per una settimana, nella speranza che vengano estratte otto domeniche di seguito.
Il nome però suonava un po’ troppo progghettaro: Rovescio della Medaglia, Balletto di Bronzo, Ministro del Tempo… poi tutti hanno preso a chiamarci Ministri e siamo rimasti così, ma siamo stati effettivamente i Ministro del Tempo per tutto un periodo: un periodo buio fatto di metal, nu metal, progressive…

A proposito di quel periodo buio, qual è la differenza dal tipo di palchi e ambienti che frequentate allora, con quel genere di musica, rispetto a quelli che frequentate adesso?
I palchi erano orripilanti, in quei localacci mafiosi che ti mettono il sovrapprezzo sulla birra… adesso abbiamo addirittura il frigo! Prima cercavano di farci suonare gratis con tutti quei discorsi sulla passione, almeno finchè ci siamo accorti che era proprio quello l’inganno. L’inganno è chiamarla passione, è insistere su questa storia dell’irrazionale che ti permette poi di non pagare la gente. Non è tanto per il piacere dei soldi… è che se vuoi che ci sia una lealtà a questo mondo, allora rispettami, pagami!

Vi definite dei precari del rock, con il contratto che non arriva a fine mese: possiamo considerarvi in un certo senso dei punk, per questa vostra particolare visione del no future?
Dipende: se l’etica punk è quella del vedere la discografia come un autogrill, in cui rubare e poi mettersi la roba sotto il cappotto allora ci sta. Se invece l’etica punk vuol dire pensare che tutto quanto sia fatto per fregarti i soldi e basta per poi effettivamente rassegnarsi a mangiare la roba dell’autogrill allora no, non ci stiamo. Generalmente dal punk sono venute sempre cose buone, anche se noi non ne abbiamo mai ascoltato o ne abbiamo ascoltato pochissimo.

Stasera per il vostro concerto ho visto una quantità considerevole di fanciulle che generalmente non abbondano allo Spazio 211. E’ insolito che una band agli inizi abbia già un così alto seguito femminile… non avete paura che la vostra credibilità “indie” possa uscirne minata?
Detta così la credibilità sembra quasi la credibilità del partito… per noi tutta questa storia è dovuta al fatto che, in Italia, la classe del rock è in mano a chi sostanzialmente al Liceo non trombava. Qual era allora la credibilità di Bowie, ai tempi di Ziggy Stardust, quando aveva le squinzie che gli si contorcevano dalle lacrime nelle mutande? Questa è un’eredità che ci portiamo dietro da Guccini e da quel cantautorato lì, da quelli che andavano ai collettivi dicendosi che “o quello oppure nient’altro”.

Nelle vostre canzoni mi pare di aver avvertito una certa ostilità nei confronti della Milano fighetta, quella ancora “da bere” ma che magari oggi si veste da alternativa: vorrei che mi raccontaste il circuito live milanese, l’ambiente, il tipo di locali…
Noi a Milano non suoniamo mai: tutti pensano che sia una città vivissima da questo punto di vista, in realtà funziona più che altro come base organizzativa, dove riesci a suonare in piazza o magari a contattare qualcuno nei locali, ma di posti dove esibirsi ce ne sono pochi, pochissimi.
Il vero problema comunque, ad una certa età non sta più tanto nell’attitudine di quello che si scamicia o dell’altro che sta nelle sue scarpe, il problema è quel paludone che si porta dietro tutto. Come nella Storia Infinita, quando il protagonista, Atreiu, arriva a cavallo nelle Paludi della Tristezza, quelle che ti facevano perdere tutti gli appigli. Milano ora è così: ai tempi degli Afterhours, nella prima metà degli anni novanta i centri sociali erano qualcosa di davvero attivo, ora non c’è più una realtà vera e propria. Quella parte lì se la son persa loro, quelli che ci stavano dietro, noi allora eravamo solo quelli che andavano, frequentavano e basta: poco a poco i centri sociali hanno cominciato a mettersi l’uno contro l’altro, hanno smesso di fare manifestazioni… se inizi a dare un’immagine del genere è ovvio che la gente poi si limita a venire giusto per bersi il suo birrino sera per sera e tutto finisce lì. I radical chic che dicevamo prima sono arrivati dopo, a scena già esaurita, e non sono mai andati da nessuna parte: l’unica realtà che sta venendo fuori in fatto di locali è quella dei Circoli Arci e qualche eccezione rimasta come il Magnolia, dove tra l’altro lavoriamo, che è una specie di oasi. Tutti gli altri posti di Milano chiudono uno dopo l’altro: hanno chiuso Teatro Garibaldi che era una bella roccaforte, il Leoncavallo sta ancora lì ma sempre con la spada di Damocle che gli pende sulla testa… hai voglia a prendertela con il sindaco, la colpa in realtà è loro, di chi stava prima e aveva in mano la cosa, sono loro che sono “mancati”.
Qualunque cosa tu faccia, che tu sia un organizzatore di concerti oppure un panettiere, il problema è sempre far passare qualcosa a chi hai davanti, metterlo in condizione di capire quanto sia bello fare quella cosa lì, dirgli: “pensaci!”

Mi state dicendo che anche voi, quando siete sul palco a suonare, state in realtà promuovendo voi stessi o un certo modo di concepire la musica?
Guarda, spesso i gruppi ci vengono a dire “cantavamo in inglese ma abbiamo iniziato a cantare in Italiano dopo aver sentito voi!” … Tutti questi gruppi che fanno i testi in inglese, stanno in sala prove e aspettano che arrivi il cantante con il testo nuovo…ma quello col testo nuovo chissà che cacchio ha scritto, se lo canta per i fatti suoi che tanto in sala prove non si sente niente! Ci sono gruppi in Italia che non sanno cosa sta cantando il loro cantante, non l’hanno mai saputo! Io (Davide, il vocalist ndr) quando abbiamo scritto un nuovo testo lo leggo, magari declamandolo ironicamente.
Rifecendomi all’esempio di prima, quello che ci separa da un gruppo come gli Afterhours sta soprattutto sotto il lato comunicativo: un gruppo come il loro può fare tuttalpiù una canzone “bella” secondo la soggettività di chi la scrive, che potrà più o meno corrispondere a quella di uno come me o come te che l’ascolta. A uno che invece vuole sentirsi dire in faccia delle cose noi arriviamo con un album a dirgli che “I soldi sono finiti”, e gli sbattiamo pure un euro in copertina! Perché è così, è vero, è la filosofia del consumismo che torna indietro. Molti gruppi non hanno mai fatto dei pezzi così, socialmente puntati. I Ministri sono nati per questo, fondamentalmente, per dire al di là tutto quello che c’è sopra: se domani uno di noi si spacca una gamba o rimane paralizzato o se rimaniamo paralizzati tutti e tre, facciamo altro ma non cambia un cazzo, continui comunque a dire qualcosa a chi hai davanti.