Festival Inrocks (La Cigale – Parigi) (6 novembre 2004)

Nell’ambito del festival organizzato in tutta Francia da Les Inrockuptibles, il periodico più importante in ambito musicale transalpino e peraltro molto aperto e attento a tutto ciò che è arte, abbiamo scelto la giornata parigina a La Cigale, piccola e preziosa bomboniera dove i dEUS tornavano sulle scene dopo ben cinque anni.

La scorpacciata di note comincia all’ora di merenda, poco più delle 17.30, quando il giovane Florent Marchet propone alcune tracce estratte dal suo primo album, “Gargilesse”. Laureato al FAIR (Fondo d’Aiuto all’Iniziativa Rock…) e accompagnato da ottime critiche nei vari “Le Monde”, “Libération” e lo stesso “Les Inrockuptibles”, il buon Marchet purtroppo non entusiasma, a causa di un repertorio che pare alquanto sopravvalutato. Lo stile evidenzia un forte debito verso Radiohead e soprattutto Coldplay: purtroppo mancano le impennate, tutto è estremamente piatto e noioso, un déjà vu et entendu che porta direttamente al bar per una birra.

Un pubblico molto gentile saluta l’enfant du pays, veloce cambio di strumenti, apparizione di Joanna Newsom, giovanissima arpista, compositrice e cantante dalla personalità ben più intrigante del predecessore. Le credenziali in questo caso non sono legate a recensioni ma a collaborazioni: Devendra Banhart, Bonnie Prince Billy e Cat Power. Già dalla prima canzone si evidenzia un timbro vocale molto originale e infantile, a metà tra Bjork, Cindy Lauper e Kate Bush: lo stile si inserisce nella nobile tradizione free americana, particolarmente in quella West Coast che continua a proporre personaggi non convenzionali, frutti antropologicamente assai interessanti di quella rivoluzione hippy dimenticata un po’ troppo in fretta. La Newsom fa pop con grande intelligenza e coraggio, l’uso non convenzionale dell’arpa la potrebbe lanciare per una o più stagioni tra le stars ed essere contemporaneamente un limite. Per il momento godiamoci la carica e le proposte molto suggestive di Joanna, segnalando un suo recente EP, “Walnut whales”.

Si cambia decisamente registro con i 22/20’s, giovanissima band inglese che dopo il suo primo album è stata accostata nientemeno che ai Rolling Stones degli esordi, quelli che “nothing but blues…”. Seguiti e prodotti da una vecchia faina quale Brendan Lynch (Primal Scream, Paul Weller), i quattro dimostrano un’ottima potenza, anche se la scarna elettricità degli Stones prima maniera è un po’ lontana: la perseveranza di certi critici di associare nuovi gruppi direttamente al gotha del rock è degna di miglior causa… I 22/20’s paiono più legati a un blues tardo 60’s, dove l’hard rock aveva infilato già le mani, con peraltro eccellenti risultati. Centrati, potenti, scenici, pezzi di buona levatura serviti senza risparmio di sudore (esemplare il bassista capelluto in trance con e attraverso il suo strumento): questo è il menu, accontentiamoci e non assilliamoli.

A seguire, Graham Coxon. C’è attesa per l’esibizione dell’ex chitarrista dei Blur, personaggio inquieto, nevrotico quanto affascinante. In pochi anni la sua produzione solista è diventata quantitativamente rilevante, benché il livello degli album faticasse a passare una risicata sufficienza: la passione di Graham per la lo-fi portava a lavori eccessivamente sottoprodotti, certe volte irritanti nel loro manierismo sfatto. Aria diversa nel nuovo “Happiness in magazines”. Innanzitutto troviamo Stephen Street alla produzione, vecchio mentore degli Smiths e degli stessi Blur: come d’incanto il suono torna a gravitare intorno a un concetto più elettrico, ritmato, essenzialmente bluriano periodo ’92-’94. Ci si era quasi scordati che Coxon ha avuto le mani in pasta in alcuni dei più grandi capolavori della musica inglese degli ultimi 15 anni. L’esibizione è serrata, punk in alcuni momenti: dopo il primo pezzo Graham ripone addirittura gli immancabili occhiali da Clark Kent su un amplificatore, sembra Linus senza coperta. Salti alla Townsend, assoli schiena a terra alla Hendrix, Coxon pilota la sua stralunata band di finti giovani come una vera rockstar: le canzoni sono godibili e il pubblico applaude con vigore. E’ pronto per rientrare alla Base Blur? Farà un gruppo con John Lydon? Si darà ai sintetizzatori? Speriamo nella prima opzione, visto che c’è qualcosa che non torna mai completamente nell’avventura solista di Graham Coxon.

Le orecchie ormai friggono, seviziate dai watt, ma il cuore è in tumulto aspettando il ritorno dei dEUS, il gruppo di Anversa che si ripresenta dopo cinque anni di silenzio, rotto solo da marginali progetti solisti e beghe interne, protrattasi fino a un mese fa, quando Danny Mommens e Graig Ward lasciano il gruppo nel bel mezzo delle registrazioni del nuovo album, sostituiti da Alan Gevaert e Mauro Pawloski. Una grande ovazione saluta Tom Barman & co.: ci vogliono le note di “Instant street” perché La Cigale cominci finalmente a cantare e a stravolgersi per un’ora ad altissima intensità emotiva. Barman è nervoso e concentrato, sa che la gente aspetta questo momento da troppo tempo. Alcune canzoni che dovrebbero trovare posto nel nuovo lavoro si alternano alle vecchie perle: la densità di scrittura sembra intatta, quella certa attitudine a mescolare lo sghembo e il classico rimane, sale la voglia di un nuovo dEUS… “Fell off the floor man”, “Suds and soda”, “For the roses”, “Worst case scenario”: capolavori resi al massimo dell’emotività, mescolanze eccelse di voci, tensione continua, altissima, perentoria, crescendo di forza sovrumana. Il severo orario del festival prevede solo 60 minuti di show, ma forse è giusto così. E’ molto raro vivere un tale impatto emotivo collettivo, raro quanto sfibrante: il quintetto fiammingo ha condensato cinque anni di frustrazioni, illusioni e ripensamenti in un’abbagliante e geniale energia musicale. Rendiamo grazie ai dEUS.