Independent Days Festival (Arena Parco Nord- Bologna) (4 settembre 2004)

Un cast eccezionale, quello della prima giornata dell’ultimo festival estivo che conti; per arrivare a goderselo, però, bisogna fare uno slalom tra imbonitori dall’accento bolognese perforante, stand che regalano pacchetti di polenta, banchetti traboccanti di magliette dei Sonic Youth e infine una ridda di venditori di zucchero filato e giostre, compreso il leggendario Brucomela: lo scruto per un po’, poi mi vergogno e mi dirigo alla cassa accrediti.

Da lì ricavo una pessima impressione sui Mondo Generator di Nick Olivieri; mi resta il tempo di vederlo sul palco per le ultime due canzoni del set, ma l’impressione è talmente negativa da farmi sperare che Josh Homme abbia la bontà di riprenderselo indietro nei QOTSA e lo convinca a mollare questo suo progetto inutile e sguaiato come da copione.

Ben altra emozione, invece, regala Mark Lanegan, nonostante suoni quando il sole è ancora alto; le sue canzoni sono notturne, spettrali, dense di inquietudini senza nome, strade deserte spazzate da vortici improvvisi, pericolose e sensuali. Alla sua voce, scurissima ma non coperta dagli strumenti come si poteva temere, si aggiunge spesso quella della vocalist che lo accompagna anche nel recente e splendido “Bubblegum“; le chitarre sono sempre sul punto di esplodere, e talvolta lo fanno, memori dei vecchi Screaming Trees. Un set impeccabile, soprattutto in una “I’ll take care of you” da strizzare il cuore, e nella conclusiva “Metamphetamine blues”, con quella “rolling, just to keep on rolling” ripetuta come una minaccia incombente. Se Johnny Cash fosse nato cinquant’anni dopo, suonerebbe esattamente come Mark Lanegan.

Ci rassegniamo all’assenza dei dEUS (rimpianti da moltissimi) e dei Keane (di cui, per contro, in pochi sembrano sentire la mancanza), per andare ad ascoltare il gruppo più pompato degli ultimi mesi, i Libertines. Pete Doherty ha lasciato la band? Favoloso, ma con o senza cantante la band avrebbe dovuto dimostrare di essere qualcosa in più del solito gruppo spinto dalla stampa sull’onda del decrepito clichè sesso – droga – rock ‘n’ roll: gli stereotipi mi hanno stancato, e sul palco il loro rock a metà tra Clash e Smiths si dissolve per rivelarsi in quello che realmente è: un punkettino sciapo di quart’ordine. Dopo averli sentiti schiacciare la pur accattivante “Can’t stand me now”, abbandono l’arena, ne ho avuto abbastanza.

Torno giusto in tempo per vedermi i Franz Ferdinand. Ora, so che dovrei interpretare la parte del giornalista scettico, ma i quattro scozzesi sono stati travolgenti e divertentissimi. Vedere tutta l’arena ballare al ritmo di “Take me out” e “The dark of the matinée” è uno spettacolo nello spettacolo, e la band non si risparmia; rispetto alla loro data italiana di qualche mese fa, è diventata una vera e propria macchina da guerra: il drumming possente, un basso squadrato e marziale, le chitarre tese al punto giusto, tengono il palco da entertainer consumati, e pazienza se le canzoni a lungo andare sembrano tutte molto simili: sono stati grandi, e quando, verso la fine, sentiamo il ritornello “Ich heisse super phantastisch” viene quasi da credergli.

Inutile negarlo, è questo il momento che stiamo aspettando. Basta contare le loro magliette tra il pubblico. Tocca ai Sonic Youth chiudere la serata, e molti, compreso chi scrive, li vedono dal vivo per la prima volta. L’impatto emotivo è formidabile: sul palco c’è un pezzo enorme di storia. Kim Gordon è magnifica, in gran forma; Jim O’Rourke ricama invisibile nell’ombra; Thurston Moore è davvero identico, perfino nel taglio di capelli e nella gestualità con la chitarra, alla sua copia italiana. Inizia lo show, ed è come deve essere: impetuoso, travolgente ribollire di rumore e di fughe melodiche impossibili.

Siamo tutti in adorazione, e lo saremo fino alla fine, quando Kim ci farà innamorare di lei con una sconvolgente e inattesa “Drunken butterfly”, ma a mente fredda spuntano alcune considerazioni: a) i pezzi più recenti sono molto più insipidi, e il pubblico se ne accorge e b) il gruppo non sembra in grande serata, arrivando a combinare un mezzo casino durante una “Teenage riot” accolta, come si conviene, da un enorme boato. Insomma, resta l’emozione di averli finalmente visti su un palco, ma la sensazione è quella di averli persi all’apice e di doversi accontentare di un gruppo che vive sugli enormi fasti del passato.

Esco dall’arena stremato, ci sarebbero i Radio 4 alla tenda Estragon, ma mi accascio e non mi muovo più. Lascio la domenica a chi si vuole gustare quei pagliacci dei Darkness, mi sfiora un rimpianto per gli MC5 e Melissa Auf Der Maur, do un’ultima occhiata vogliosa al Brucomela che ancora sfreccia sui binari, e di nuovo desisto. Per me, quest’anno la stagione dei festival si è conclusa. Nel migliore dei modi.