PINK FLOYD, Wish You Were Here (EMI, 1975)

L’immenso successo riscosso da “The Dark Side Of The Moon” spiazza i Pink Floyd, li lascia frastornati: per la prima volta nella loro storia, lasciano passare più di due anni prima di far ritorno in studio, preferendo portare avanti i loro mastodontici show dal vivo fino a tutto il ’74. Durante tali spettacoli, però, cominciano a suonare tre nuovi, lunghissimi brani, uno dei quali, “Shine On You Crazy Diamond”, diverrà l’asse portante del primo nuovo disco dai fasti del Lato Oscuro.

“Wish You Were Here” esce nell’autunno del 1975, e viene accolto tiepidamente: il mondo si aspettava un “Dark Side II”, ma l’album ha un impianto diverso. Si tratta ancora di un concept album, è vero, ma viene in parte recuperata la formula di “Atom Heart Mother” e “Meddle”: una lunga suite portante saldata a una manciata di canzoni. Stavolta però la suite è divisa in due tronconi che fanno da prologo ed epilogo, e racchiudono gli altri brani dell’album.

Il tema del disco è quantomai personale: Waters e i suoi si abbandonano ad un malinconico ricordo di Syd Barrett, il ragazzo che inventò i Pink Floyd, che bruciò in pochi anni alla fiamma del proprio
genio e della propria follia. È lui il pazzo diamante, il “Crazy Diamond” del brano principale, la giovane rockstar irretita e corrotta dallo show business di “Welcome To The Machine” e “Have a Cigar”. Ma non si pensi che l’album si risolva nel semplice autobiografismo. “Wish You Were Here” è un’opera toccante, gelida e assieme dolce, su un universale senso di perdita, sulla fuga della gioventù e dei suoi sogni iperbolici.

Come nelle migliori cose dei Floyd, tutto ha inizio da un piccolo spunto: la celeberrima frase di chitarra di Gilmour che apre “Shine On…”, piena di una melanconia che spinge Waters a scrivere un testo altrettanto triste, Wright a indugiare più a lungo del solito sui tasti dei suoi eterei sintetizzatori. La suite si dispiega per più di venti minuti, alternando momenti di intensità esecutiva a pigre bonacce strumentali: forse è troppo lunga, forse in parte già sentita, ma resta l’ultima grande testimonianza della migliore vena dei Pink Floyd, maestri nel riempire a poco a poco gli spazi con minime variazioni di colore sonoro, giocando quasi con gli strumenti, e finendo per costruire armature grandiose.

Le canzoni: “Welcome To The Machine”, gelida e vibrante al tempo stesso, scandita da disumani ritmi meccanici e sospinta dai piccoli accordi di una chitarra acustica, è la voce di un mostruoso automa che sonda i desideri e i sogni del giovane Syd; “Have A Cigar”, affidata alla voce di Roy Harper, è un rock tirato che completa l’inganno, fagocita il ragazzo fra i lustrini e le false promesse del successo. E infine la famosa title-track, bella e sconsolata ballata che esprime con un rammarico composto il senso ineluttabile della perdita.

“Wish You…” è probabilmente l’album realizzato con più partecipazione emotiva dalla band, il più sentito; resta l’ultima grande pagina dei Floyd come progetto corale, frutto dell’opera di quattro persone. È vero, poi ci sarà anche “The Wall”, ma lì Waters farà squadra a sé.

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