PINK FLOYD, Meddle (EMI, 1971)

Nel 1971 i Pink Floyd uscivano dall’esperienza controversa di “Atom Heart Mother”; la “fresca schizofrenia” dei vecchi tempi sembrava essere andata definitivamente persa e sostituita da una violenta e repentina incursione nel pop. Si imponeva una scelta artistica radicale: sperimentali o orecchiabili? Inovazione o tradizione? “Meddle” rappresenta l’ultima testimonianza di questa lacerazione interna: violente cavalcate psicotrope si alternano con brani dolci e maledettamente melodici, immediatamente seguiti da interminabili suite.

Il disco apre con una potenza inaudita precedentemente nei dischi dei Pink Floyd: “One of These Days (I’m Going To Cut Into Little Pieces)” è una scarica di note rincorse sul vibrante basso di Roger Waters; il riff monocorde del basso viene circondato dalle urla deliranti della chitarra di Gilmour che si aggira in una tempesta di vento. L’energia primitiva di questo brano è talmente viscerale e coinvolgente che quasi scordiamo per un attimo che è la sigla di “Dribbling” (!) .

Le acque sono destinate a calmarsi immediatamente. Nelle successive quattro canzoni si può capire facilmente chi è che “porta i pantaloni” ora all’interno del gruppo. Brani come “A Pillow Of Winds”, o “Fearless” sono impregnati di quel melodicismo gilmouriano che ha reso i Pink Floyd digeribili a pubblici di qualsiasi palato. Nutella per le orecchie. E come non sciogliersi di fronte a delicate ballate come “A Pillow Of Winds”, solcata da lievi arpeggi di chitarra acustica e sorvolata da eterei passaggi di “slide guitar”, su cui poggia melliflua la voce di Gilmour, l’anima gentile dei Pink Floyd? La grinta sembra tornare con “Fearless”, gradevole pop song sostenuta da un energico riff di chitarra (pulita ovviamente, per carità!) e circondata dai cori delle tifoserie che bazzicano il Wembley Stadium.

Con “San Tropez” e “Seamus”, il ghigno insano dei primi dischi viene sostituito da un placido e “borghese” sorriso ironico: la prima è un divertente brano “lounge” in cui Rick Wright può dare finalmente aria alle mani sui tasti di un pianoforte, provvisoriamente lontano dai soliti muschiosi sintetizzatori (qualcuno riesce a sentire nella strofa il giro armonico di “Brain Damage”? Ma chi poteva immaginarselo?); la seconda è un breve blues abbastanza insignificante, accompagnato dal latrato di cani piuttosto malconci.

Ma il piatto forte deve ancora venire. Il 15 maggio 1971 i Pink Floyd si esibirono al “Garden Party” del Crystal Palace, sfoggiando per la prima volta una trovata scenica che successivamente riscuoterà un largo successo: una piovra gigante gonfiabile che affiorava sulla superficie del lago di fronte al palco. Ma il concerto suscita anche un altro motivo d’interesse: la scaletta del concerto comprendeva anche un nuovo pezzo intitolato “Return To The Sun Of Nothing”; questo brano venne successivamente incluso in “Meddle” col titolo di “Echoes”, occupando l’intera seconda facciata del disco. Questa suite, epica, struggente, toccante, è il canto del cigno dei Pink Floyd “sperimentali”, quelli che stravolgevano e rivoltavano melodie fino alla nausea, quelli che arrivavano all’estrema dilatazione del tempo, dello spazio e dei suoni per raggiungere l’ispirazione occulta. “Echoes” è un brano di 23 minuti circa, basato praticamente su un unico tema melodico, prima introdotto dall’onirico piano di Wright, poi riproposto magistralmente dal duetto vocale di Gilmour con lo stesso Wright, successivamente passato attraverso le struggenti corde del bonario chitarrista; la suite si concede un lungo intermezzo blueseggiante (come si era già sentito nella suite di “Atom Heart Mother”; in qualche modo bisognerà farlo passare il tempo, no?), perdendosi poi nelle spelonche sonore già ampiamente sperimentate in passato, arrivando infine trionfalmente “a riveder le stelle” col tema principale.

Il brano è meraviglioso ma la formula comincia ad essere logora. Serve nuova linfa per alimentare un gruppo che ha fatto dell’intuizione musicale, e non certo della preparazione strumentale, il proprio punto di forza. Con “Meddle” (ma anche nei lavori precedenti), i quattro scoprono di avere un dono magico e preziosissimo: quello di costruire melodie uniche ed indimenticabili, liberi dalla responsabilità di essere “avanguardia” sempre e comunque. Le forze ci sono, gli uomini anche. La strada è aperta e spianata per raggiungere in un soffio il Lato Oscuro della Luna.

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