PINK FLOYD, Atom Heart Mother (EMI, 1970)

I Pink Floyd, con il progetto ormai saldamente in mano a Roger Waters e David Gilmour, intendono proporre un album che mantenga l’intento sperimentale di “Ummagumma” ma che risulti più digeribile per il grande pubblico. Questa doppia esigenza porta la band a comporre “Atom Heart Mother” come un anello di Moebius: un prologo e un epilogo strumentali, dove risiede la componente folle della band, la sua natura lisergica, la sua incredibile fantasia, i suoi echi orientaleggianti e le sue aperture sinfoniche; e un centro dell’album con tre canzoni in senso tradizionale.

Forti di una copertina destinata a entrare a far parte della storia del rock (la mucca dello studio grafico Hypgnosis) i Pink Floyd compongono due brani perfetti per entrare nell’immaginario hipster dell’epoca: la title-track si dipana lungo i suoi venti e più minuti con leggiadra enfasi, aperta da un’ouverture di fiati e ottoni prima dell’irrompere della batteria. Musica da camera trasformata nella più libera interpretazione dei dettami del rock; controcultura pura, come pochi gruppi possono vantare di aver prodotto.

Acidità che si fondono gloriose nell’intelaiatura musicale, riprese anche nella stupenda “Alan’s Psychedelic Breakfast” che va a chiudere l’album. Introdotta da rumori domestici e voci sovraincise, la musica attacca al cuore lo spettatore, con il pianoforte che prende con decisione le redini del gioco strumentale, presto accompagnato dalla batteria, dalla chitarra, dalle tastiere. Così come è arrivata, la musica svanisce lasciando nuovamente posto alle registrazioni della colazione psichedelica di Alan, che a sua volta lascia il posto al secondo frammento della lunga suite, stavolta più incentrato sulla chitarra, prima dell’ultima traccia e della fine epica e calda. Stupore e meraviglia, a cui i Pink Floyd hanno abituato ma che continuano a lasciarmi interdetto e rapito.

“Alan’s…” è la fine di un album che presenta nel mezzo altri tre brani di ottimo livello. La splendida ballata “If” è nel puro stile di Roger Waters, pacificante nel suo dolce arpeggio acustico; più ancorata all’epoca in cui è stata scritta appare invece “Summer ’68”, composta da Richard Wright, mentre “Fat Old Sun” mostra chiaramente il genio chitarristico di David Gilmour.

Ormai la band è affermata a livello internazionale, pronta a stupire il mondo almeno altre tre volte e pronta per essere presa come esempio da gruppi futuri (ma chi avrà mai ispirato gli Air di “Virgin Suicides”?).

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