JULIAN COPE, The Collection (Universal, 2002)

Uscito da tempo dalla logica delle majors discografiche, Julian Cope si ritrova evocato da questa “Collection” edita dalla Universal, proprietaria dei diritti delle canzoni di Copey fino agli albori degli anni ’90.

Questa antologia, dal packaging estremamente povero e triste, provoca in noi due contrastanti sentimenti. Il primo è quello solitamente acceso da operazioni fuori dal controllo diretto dell’autore, dove un ristretto numero di esperti (?) si arroga un insopportabile principio di arbitrio su intere carriere e sulle preferenze dei fans: quindi, un sentimento di disgusto e di espropriazione indebita di cose strictly personals. Il secondo si lega invece ad un’insopprimibile voglia: quella che il mondo possa finalmente conoscere la vita e le opere di Cope, uno dei pochi artisti genialmente ruspanti rimasti sulla scena, nobilissimo discendente di una tradizione di Grandi Visionari e Beautiful Losers, tra i quali citiamo Syd Barrett, Scott Walker, Kevin Ayers, Skip Spence.

“The Collection” raccoglie diciotto tracce disseminate dall’Archdrude tra il 1984 ed il 1992, apparentemente pescate qua e là, senza alcun filo logico, se non quello – invero assai importante – della bellezza. Sì, le canzoni sono tutte splendide e rappresentative delle varie e diversissime fasi dell’artista in quel lasso di tempo.

Così si parte dalle atmosfere ancora molto Teardrop Explodes dei pezzi tratti da “World shut your mouth” e “Fried”, ellepì entrambi del 1984. “Sunspots”, Head hang low”, “Bill Drummond said”, “Sunshine playroom” e “Greatness and perfection…” sono fresche ed ingenue nel loro incontenibile beat soul, mentre le creazioni estrapolate da “Saint Julian” (’87) e “My nation underground” (’88) rivelano la parte più corposamente rock dell’autoproclamato Santo. “World shut your mouth” e “Trampolene” in particolare sono i singoli che più vicini sono arrivati al successo, senza purtroppo raggiungerlo pienamente. La delusione annienta per qualche tempo Cope, il quale però rinasce con un altro meraviglioso vestito, quello di agitatore sociale e di esperto di religioni pagane che movimenta “Peggy suicide” (’91), capolavoro nella discografia del gallese ed in assoluto tra i migliori albums pop rock della decade. Le grandissime tracce tratte dal successivo “Jehovahkill” (“The mistery trend”, “Soul desert”, la meravigliosa e tesissima “Upwards at 45 degrees”) non fanno che seguire il corso funkspacerockunderground del predecessore, evidenziando una maturità compositiva e vocale semplicemente stupefacente.

Sarebbe meraviglioso che questa collezione uscita in sordina riuscisse a raggiungere qualche ignaro, in qualche maniera. Noi proviamo ad essere una “qualche maniera”, sicuri che ci ringrazierete, ad ascolto ultimato.

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