PINK FLOYD, Ummagumma (2LP, EMI, 1969)

“Ummagumma”, quarta uscita discografica dei Pink Floyd, è un album doppio registrato per metà dal vivo e metà in studio.

Il disco live (l’unico live ufficiale del gruppo fino agli anni ottanta), testimonia l’esibizione di un quartetto in splendida forma, solido, snello ed affiatato. David Gilmour – entrato a far parte dei Floyd subito prima della dipartita di Syd Barrett, e quindi da poco tempo – si rivela già saldamente inserito nelle dinamiche del gruppo, ed i Magnifici Quattro eseguono un pugno di brani notevoli del primo periodo, riuscendo ad arricchire con energia ed il giusto grado di acidità le corrispondenti versioni da studio. Il disco dal vivo di “Ummagumma” vale già da solo l’acquisto del doppio album, e dimostra che i Pink Floyd, anche se rimasti orfani del genio di Barrett, restavano comunque pienamente capaci di lasciare la propria firma sul libro colorato del rock psichedelico.

Il secondo disco, inciso in studio, contiene cinque composizioni originali, scritte singolarmente dai quattro membri, e rappresenta la vetta più alta mai toccata dal gruppo in termini di sperimentazione e di coraggio nello sperimentare. Dopo “Ummagumma”, infatti, questo impeto è andato gradualmente scemando a favore di risultati via via più rassicuranti ma – va detto – anche più mirati, e talvolta più riusciti. In altre parole si assiste in questo album all’intento di sondare ogni possibile via psichedelica, senza una precisa direzione, e senza nemmeno volerne adottare una: si cerca invece di percorrerle tutte, col risultato di non approdare da nessuna parte. Tuttavia ciò, anziché essere un limite, finisce per caratterizzare e rendere unico il disco; “Ummagumma” infatti esplode come un violento big-bang, e l’ascoltatore si ritrova sospeso in un mondo fatato, talvolta claustrofobico e tumultuoso, altre volte dilatato e rilassato, e circondato da esseri strani e piuttosto schizoidi. Sicuramente manca la folle e tagliente obliquità di Barrett, qui sostituita da una psichedelia a tratti confusa e forse un poco acerba, ma comunque viva e dinamica, capace di regalare all’ascoltatore un’esperienza viscerale, di assoluta intensità.

L’assurdo volo allucinato si svolge sulle astronavi di Wright che firma “Sysyphus”, composizione strumentale altisonante, classicheggiante e sinfonica, mentre Mason compone “The Grand Vizier’s Garden Party”, pezzo quasi esclusivamente percussivo. Waters produce due brani, “Grantchester Meadows” – folk rurale ed etereo che Roger canta tra uccellini e voli di insetti – e la quasi Barrettiana “Several Species…”, non una canzone ma un inquietante gioco sonoro basato su effetti creati assemblando, accelerando e maltrattando voci registrate su nastro. Gilmour invece scrive la roboante “The Narrow Way”, anticipando il suo gusto per certe composizioni Floydiane ascoltate nei successivi anni ’70 e anche nella fase post-Waters.

In sintesi, “Ummagumma” è sicuramente una pietra miliare nel percorso artistico dei Pink Floyd. Il documento live è ottimo, mentre la parte registrata in studio ci restituisce un gruppo dalla personalità compositiva non ancora chiara, ma che trae forza dalla propria indefinitezza e nebulosità per prodursi in uno sforzo creativo dal risultato forse imperfetto, ma ricco, potente, e soprattutto veramente ‘sperimentale’, con tutto ciò che di positivo ne consegue.

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