Tori Amos, Teatro Orfeo (Milano) (17 dicembre 2001)

di Francesca Stignani e Simone Ferraresi

Il palco è nascosto dietro un sipario nero fatto a brandelli. Un po’ di attesa e poi le luci si spengono, e attacca “’97Bonnie & Clyde”, dall’ultimo album. Sull’ultima nota cade il sipario, si alza il fumo, compare una scenografia essenziale tutta affidata all’effetto delle luci su tre pannelli bianchi. Tre strumenti: un piano a coda, un Fender Rhodes e un Wurlitzer reduce dal primo Woodstock. Fin dall’inizio c’è aria di anniversario: sono dieci anni di carriera solista. E infatti i brani sono quasi tutti del primo e dell’ultimo album, con qualche efficace incursione in “Boys for Pele” e nei B sides. Le mani di Tori si alternano tra una tastiera e l’altra, poi ne suona due contemporaneamente sedendosi a cavallo dello sgabello e guardando dritto verso il suo pubblico. Che resta in religioso silenzio fino alla fine di ogni canzone.

“Leather” apre la serie dei brani del primo album, i “classici” che dal vivo restano forse i più emozionanti: è appena più lenta rispetto alla versione dell’album, e questo la rende più intensa e profonda. Segue l’evocativa “China”, e qui la voce è un po’ incerta, forse volutamente: la “nota fuori posto” è sempre la stessa, nello stesso punto. L’effetto è da brivido. “Winter” è vera poesia in musica, un tuffo nel suo mondo. Soprattutto così a pochi metri da lei: le emozioni arrivano con una limpidezza vitrea, nessuna barriera tra il suo microcosmo e quello di ogni spettatore, solo la musica, pura e perfetta. Infine, a cappella, “Me and a gun”, spietato resoconto di uno stupro realmente accaduto. E’ uno dei momenti più coinvolgenti dell’intera performance: la scena è affidata completamente alla voce di Tori e alle sue innumerevoli modulazioni. E naturalmente all’espressività straripante del suo corpo, che strappa scrosci improvvisi di applausi.

“Take to the sky” necessita di percussioni: ma qui ci pensa il pubblico, a tenere il tempo, seguendo Tori che suona con la mano sinistra, batte la destra contro il coperchio del pianoforte, si volta a guardarci, sorride, incita e canta senza una sbavatura. “Questo è l’unico paese dove il pubblico batte le mani a tempo” commenta alla fine. Con le evoluzioni vocali di “Beauty Queen” e le atmosfere da carillon inquietante di “Horses” viene giù il teatro.

Per tutto il tempo, Tori evoca una misteriosa signora. “Ho sognato questa serata, perché una persona molto speciale è venuta a trovarci. Molti l’hanno definita una puttana. La conoscete molto bene, ma vi dirò chi è soltanto alla fine”. Sarà il richiestissimo bis a rivelarlo: si tratta di “Mary”, Maria Maddalena, emblema di una liberazione possibile dai secoli di oppressioni perpetrate dagli uomini e dalle religioni nei confronti delle donne: “hanno stracciato il tuo vestito e ti hanno rubato i nastri/ ti vedono piangere e si leccano i baffi/beh, le ragnatele non sono il posto giusto per una farfalla/Mary, riesci a sentirmi?/Mary, stai soffrendo/ma non avere paura/stiamo aprendo gli occhi/e so che qualcuno verrà in tuo soccorso”.

L’ultima uscita sul palco si apre con una suadente “Have yourself a merry little Christmas”, un po’ patinata. Per i fan la lacrimuccia diventa davvero inevitabile. Conclude le due ore intense ed emozionanti “Hey Jupiter”, cronaca disillusa e disperata della fine di un amore. Ma Tori Amos non ha più granché della donna abbandonata e piena di rabbia verso gli uomini di “Boys for Pele”. La voce e le sue movenze suggeriscono pace, finalmente. Una pace che raramente è appartenuta a questa donna irrequieta, semplicisticamente liquidata da molti come “pazza” o “strana”. Oggi, stranamente, le sue armonie suggeriscono serenità.