RADIOHEAD, “Amnesiac” (EMI, 2001)

amnesiac_standardA soli otto mesi di distanza dal chiacchieratissimo, amatissimo e odiatissimo Kid A, i Radiohead danno in pasto al mondo il resto dei brani registrati durante i lunghi e tormentati mesi della loro “svolta elettronica”. Un album di “avanzi”, quindi? No, proprio no. L’impressione che mi dà questo “Amnesiac” è che risenta meno della preoccupazione (ossessione?) accumulata da Yorke & C. nella compilazione del precedente album, con scalette scritte e riscritte per cercare l’unità e la coerenza dell’Opera della Svolta: stavolta si è trattato semplicemente di mettere insieme undici brani, in cui sono finite sia “canzoni” in senso tradizionale, che “tracce” frutto di malesseri e disfunzioni tecnologiche. E alcuni di questi brani, diciamolo subito, sono perle nere di melodia e disperazione, sicuramente tra le migliori che l’inavvicinabile Thom e i suoi abbiano mai elargito.

Si comincia con un tipico titolo da “pessimismo cosmico modello Yorke”: “Packt like Sardines in a Crushd Tin Box” è un brano decisamente sulla falsariga di “Everything in its Right Place”, però più morbido e sommesso, che sa di “quiet desperation” (o meglio “quiet paranoia”). In effetti tutto l’album, permeato dalle ormai note angosce yorkiane sulla perdita di significato degli esseri umani di fronte al mostro della globalizzazione/capitalismo/manipolazione genetica, si stempera spesso in andamenti ritmici più coinvolgenti e diretti di quelli singhiozzanti e sotterranei di “Kid A”; un flusso che, nei brani migliori, arriva a diventare uno strano e ipnotico swing, perfetto per una danza macabra sul tetto di un pianeta che affonda. Prendete ad esempio la stupenda “You and Whose Army”: lenta, scandita da uno spiazzante quanto indovinato basso acustico, vede Thom trasfigurarsi in una specie di cantante confidenziale da club fumoso alla fine del mondo, per poi levarsi in un’invocazione, un urlo liberatorio. E quando il ritmo si fa più serrato, ecco arrivare un’altra cosa memorabile: “I Might be Wrong” è un degno seguito di “Idioteque”, batteria elettronica e un ostinato riff di chitarra su cui Yorke si contorce e sibila come un serpente.

Ma le promesse riguardanti canzoni in stile “vecchi Radiohead”? “Pyramid Song” è una bella canzone e potrebbe fregare qualcuno, con il suo pianoforte balbuziente, anche se ricorda più “How to Disappear…” che “Karmapolice”; “Knives Out” è molto tradizionale, voce pulita, arpeggi di chitarra… una specie di versione accelerata del finale di “Paranoid Android”. Le gemme sono altrove: “Dollars and Cents”, suonatissima durante il tour del 2000 e inspiegabilmente esclusa da “Kid A”, è un inquietante e irresistibile crescendo ritmico, in cui un basso ostinato e minaccioso sostiene la voce di Yorke doppiata da una solenne armatura di archi campionati, e finisce per sfociare in un’esplosione ritmica quasi-jungle. Degna di menzione anche “Like Spinning Plates”, struggente e fugace lamento su glaciali sintetizzatori; ma è nel finale che arriva la piccola, sconsolata meraviglia di “Life in a Glass House”. Saltano fuori di nuovo i fiati, quelli veri e suonati: ma differenza della arrabbiata “National Anthem” qui mettono in piedi una sgangherata e struggente marcia funebre, a metà fra New Orleans e Nino Rota, su cui Thom leva la sua voce di bambino freak, più rassegnata e dolente che mai: l’effetto è di dolce abbandono, e si arriva a intravedere un velo di tenue, disperata ironia(!?).

Insomma: se avete amato “Kid A”, “Amnesiac” vi manderà in estasi. Se invece siete fra i tanti che non hanno gradito il cambiamento di rotta, questo album è forse più fluido, meno aspro del precedente, e potrebbe farvi cambiare idea (solo un po’, beninteso).

(Stefano Folegati)

11 maggio 2001

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