Blur, 13 (Virgin, 1999)

“Parklife” e “Country house” sono ormai lontane anni luce: i Blur sono ormai un’altra cosa e “13” è l’atto notarile della nascita di questo Altro. Consci già dal precedente “Blur” che rifare “Girls and boys” un giorno di più sarebbe stato letale per la loro salute mentale e contemporaneamente proiettati verso nuovi progetti e conoscenze, gli “Essex boys” giungono in modo naturale alla quasi sperimentazione di “13”. In verità esiste anche una spiegazione molto più prosaica per certe atmosfere malinconicamente perse: la storia d’amore di Damon con la leader degli Elastica è finita ed il nostro è davvero a terra. L’agghiacciante teoria che il dolore fa bene alla creatività dell’artista trova conferma nel sesto album ufficiale del gruppo, permeato di mestizia e triste cinismo. Apre le danze (si fa per dire) “Tender”, gospel post-tutto di durata smisurata, alla lunga lievemente noioso, la quale segna inoltre un riavvicinamento all’America, spesso derisa in precedenti episodi (“Miss America”, “Magic America”). Dopo un’incisiva “Bugman” arriva uno dei pezzi forti dell’album, “Coffee & Tv”, scritta e cantata da Coxon, davvero stupenda ed accompagnata da un video irresistibile. “Battle”, fredda come l’acciaio, distante come Plutone, è un capolavoro tout court, raggiunta solo dalla scarna ed arsa melodia di “No distance left to run”, l’ultimo messaggio di Albarn a Justine Frischmann. Il mago dell’elettronica (e si sente) William Orbit produce un disco affascinante e sfuggente, che si chiude con “Optigan 1”, lenta litania proveniente da un lontano organetto scordato, laggiù nella nebbia. Ed i brividi vi percorreranno…

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