Dopo tre lunghi anni di attesa dal celebrato “The Bends”, la band di Oxford si riaffaccia sul proscenio con un album mozzafiato e definitivo, straordinaria conferma della personalità genialoide del leader Yorke ed inquietante baluardo per le prossime future opere del gruppo, il quale è ormai proprietario di uno stile incomparabilmente unico e pericolosamente limitativo. Infatti, l’unico piccolo neo di questo indubbio capolavoro è proprio la sua uniformità, un monoblocco di disperata malinconia che trascina l’ascoltatore in un gorgo senza fine in cui è masochisticamente piacevolissimo perdersi.
Quasi spossati da tanta sofferta bellezza, comunque a mente fredda, ci si può domandare se i Radiohead mai riusciranno ad uscire dal marchingegno perfetto da loro stessi creato o si crogioleranno su splendidi allori come altri gruppi dal suono estremamente peculiare (tanto per non fare nomi, gli U2…).
Forse sto un po’ troppo “masturbando i grilli”, come diceva il grande maestro Gianni Brera; l’album è magnifico e potentemente originale, ripescando e centrifugando Pink Floyd, Progressive rock e Velvet Underground fino ad ottenere una miscela di fascino inaudito. Contiene canzoni epocali come “Paranoid android”, “Karma police”, “No surprises” e rimarrà una grande testimonianza artistica del tramonto (metaforico e non) del ‘900.
26 agosto 2000
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