[my2cents] Spencer Elden, la prigione di essere famosi “proprio malgrado”

Il trending topic di ieri è stata la notizia della causa di Spencer Elden a tutti coloro furono coinvolti nel making of della copertina dello storico “Nevermind” dei Nirvana. Tutta l’audience ha sparato addosso a Spencer, i più simpatici hanno sottolineato che sta tutt’oggi – come nella copertina – cercando di afferrare quel dollaro. È indubbio che la vicenda faccia storcere il naso ai più, dai fans a chi capisce il lato artistico (e iconico) di quella copertina, ma ad onor del vero si deve ammettere che Spencer ha sempre dichiarato, in precedenti interviste, di provare sentimenti contrastanti per essere stato messo “al pubblico ludibrio” così da neonato. Una mia cara amica, nonché profonda conoscitrice di tutto quello che è grunge, Valeria Sgarella, ha subito detto che era solo questione di tempo, e questa causa si sapeva già che sarebbe arrivata.

Ma non mi interessa qui in questo #my2cents andare alla ricerca della fondatezza della sua richiesta, del fatto che ha invece festeggiato altri anniversari dimostrando di “trovarsi bene” di fronte alla sua esposizione, che ha tatuato “nevermind” ulteriormente a prova della sua malafede odierna, ma di sottolineare quella che – a mio parere – è una macroscopica incongruenza e quella che è una sorta di destino beffardo in queste situazioni.

L’incongruenza si tratta nella sproporzione degli argomenti utilizzati dai suoi avvocati (e quindi da lui, a livello mediatico) rispetto al fine (risarcimento): l’accusa di pedopornografia è grave, e mentre tutti saremmo stati quantomeno benevoli di fronte a una sua richiesta di risarcimento per sfruttamento dell’immagine che andasse a integrare i “miserevoli” 200 dollari dati al padre e al disco di platino e all’orsacchiotto che ricevette dalla Geffen quando compì un anno (vero), posto che parrebbe che non sia mai stata firmata una liberatoria come si deve dai genitori, meno lo siamo di fronte alla contestazione di un fine morboso che – sappiamo – non esserci stato. Perché ci sono le foto preparatorie che dicono che lui ha fatto quelle foto in un ambiente protetto, e si vede benissimo che veniva “lanciato” in acqua dalle mani del papà a quelle della mamma. E, sempre per citare Valeria, come l’avrebbe presa Kurt, così sensibile ai temi del bullismo, visto che lui stesso era stato bullizzato da ragazzo?

Perché il fine era, ovviamente, artistico, senza nulla di scabroso, e fa anche specie doverlo sottolineare. E – siccome quella cover è ora considerata un capolavoro del design tanto che ora si trova al Museum of Modern Art – la causa di Eldon è diventata un po’ come una causa all’arte: è come se la modella della Gioconda facesse causa a Leonardo, e pretendesse un ritocchino allo “scandaloso” decolté. Quando le opere d’arte diventano tali, e quindi quando queste fuoriescono dal controllo dell’artista (e anche del modello), non sono più di proprietà dell’artista (o del modello), lo sono di tutti noi. E tutti noi un po’ ci sentiamo toccati da questa cosa, non vogliamo che l’opera d’arte sia “sporcata” da considerazioni (la pedopornografia) che nulla hanno a che vedere con la stessa. “Nevermind” deve rimanere intonso, mitico, mitologico, sia nella musica sia nella sua immagine iconica. Ora, ed è notizia di oggi, gli avvocati chiedono anche che la foto sia coperta “lì” se il disco fosse ristampato… Come chiedere di mettere le mutande al Nettuno di Bologna o al David di Michelangelo.

Ma i miei pensieri si sono più propriamente concentrati sulla difficile condizione di essere famosi “proprio malgrado” e, di converso, della libertà di non essere nessuno. Spencer Eldon è conosciuto da tutti non per propri meriti, ma perché è stato messo lì, inconsapevole, davanti all’obiettivo in acqua. Ma ora – per tutta la sua vita – lui deve far fronte a questa prigione nei confronti di tutti, che lo vedranno sempre e solo come “il neonato della copertina dei Nirvana”. Si potrebbe obiettare che almeno lui è famoso, mentre noi non lo siamo. Ma è un po’ come per i figli d’arte, che in effetti non invidio perché – se vogliono intraprendere la carriera dei genitori – devono dimostrare di essere meglio e per molto tempo faranno fatica a scrollarsi di dosso quel paragone (o forse non lo faranno mai). Jeff Buckley c’è riuscito, ma ancor oggi qualcuno sottolinea di chi era il figlio, nonostante poi non ci fossero molti legami “concreti” con Tim oltre quello biologico (lo abbandonò con la madre e lo vide solo qualche volta) e quello del cognome. C’è anche il rovescio della medaglia che i “figli di” hanno possibilità di crescere in un ambiente propositivo allo sviluppo del talento specifico dei propri genitori (Paolo Maldini e Federico Chiesa, per fare un esempio invece calcistico), quindi sono avvantaggiati, ma nel caso di Elden questo non è nemmeno avvenuto. Lui ha dovuto solo fare i conti con quella “maledetta” foto: non importa come sia cresciuto, cosa faccia, chi è diventato: lui per tutti è ancora lì, in piscina, e basta. È la maledizione dell’ingabbiamento e del giudizio altrui che proviamo tutti quando gli altri hanno un pregiudizio nei nostri confronti, amplificato a mille in questo caso emblematico.

Ragionando così, sono un po’ più benevolo nei confronti di Eldon: lui sta facendo solo causa al proprio passato, al proprio io, sta inseguendo solo dei fantasmi, cercando di cambiare il passato che è immutabile. Come molte volte facciamo tutti noi, quando non accettiamo quello che siamo e combattiamo contro noi stessi senza accettarci e guardare oltre la nostra piscina.

(Paolo Bardelli)