Kalporz Awards Songs 2020

E’ stato – ovviamente – un anno da dimenticare in fretta (per tutti), ma dal punto di vista musicale non si è risparmiato. La produzione in studio (sappiamo che fine hanno fatto i concerti…) è stata sostenuta, e ora che siamo alla conclusione abbiamo avuto le nostre belle difficoltà a fare le scelte di fine anno. Ora è tempo delle canzoni, e questa volta abbiamo deciso di non fare una classifica vera e propria bensì una elencazione di songs belle e importanti del 2020. Ciascun scribacchino ha scelto la sua, e per questa via la proposizione qui sotto è in lineare ordine alfabetico.

Trovate tutte le canzoni sulla nostra playlist di Spotify.

ARCA, “Time”

Il valzer dei reietti. Un inno per gli oppressi, per gli afflitti. Per tutti coloro che il regime societario profondamente omologante in cui viviamo considera “mostri”. Demoni e outsiders, transessuali e streghe, deviati e non allineati alle violente oltre che obsolete categorie della normalità. Una sorta di manifesto non solo artistico sulla libertà e la sua rappresentanza, e sull’importanza di entrambe. Qualcuno di più interessante e preparato di me potrebbe forse citare l’espressione di “coscienza di classe”, per scrivere di questa dedica rivolta a tutti coloro che vengono costantemente respinti, nascosti, annullati da una miopia sociale autoimposta. Elettronica calda e avvolgente, sprazzi di laser erotici e liriche catartiche: “Time” è un canto coraggioso, celebrativo, che ha a che fare con l’orgoglio e la riscossa (“I know you want it, and it’s time to let it out and show the world“), con l’amor proprio e la pazienza necessaria per il raggiungimento delle grandi conquiste personali (“Take this time, it’s all yours” / “Take this time tonight for yourself / Take this time tonight for yourself to unwind“). Bastava scriverla così: il pezzo politico dell’anno.

(Enrico Stradi)

ARLO PARKS, “Black Dog”

Nel mio cestone virtuale di nuovi dischi e mixtape ascoltati da gennaio fino ad ora, si sono accumulati una cinquantina di album di qualsiasi genere e rilevanza, consumati a ripetizione per distrarsi dall’angoscia da lockdown o per tuffarcisi dentro fino al collo. Se devo pensare però al pezzo più rappresentativo dell’anno, mi viene subito in mente un’artista che di dischi non ne ha fatto neanche uno, né nel 2020 né prima. L’artista in questione si chiama Arlo Parks, cantautrice e poetessa londinese di vent’anni che dal 2018 ad oggi ha pubblicato una quindicina di brani, uno più bello, maturo e commovente dell’altro. Avrei potuto infatti scegliere Hurt, Eugene o altre canzoni uscite a suo nome nel corso di questi mesi, ma poche tra queste hanno la potenza emotiva di Black Dog. Chi non vorrebbe un’amica che, come recita il ritornello del brano, ti propone di andare al minimarket a comprare della frutta quando ti vede giù, aggiungendo “I would do anything to get you out your room”? La canzone, attraverso immagini confidenziali ed immediate, tratta infatti di depressione (Il “cane nero”, come la chiamava Winston Churchill) e “dovrebbe far sentire meno isolate le persone che stanno lottando con la malattia, per iniziare una conversazione sulla prevalenza dei problemi di salute mentale nel mondo di oggi”. Arlo Parks, in una manciata di pezzi, ha mostrato come si possa trattare di temi seri ed urgenti per la sua generazione senza retorica e melodrammi, ma con uno stile asciutto e d’impatto figlio di Portishead ed Arctic Monkeys, di King Krule e The Streets, così come del migliore R&b alternativo britannico. La notizia dell’arrivo del suo album di debutto il prossimo gennaio rende già il 2021 un anno migliore di quello che sta per finire.

(Stefano D. Ottavio)

BOB DYLAN, “Murder Most Foul”

Uscita senza preavviso nella nottata del 27 marzo, in pieno lockdown, “Murder Most Foul” è stata la prima canzone autografa di Bob Dylan in quasi otto anni. Si tratta, per quanto mi riguarda, della miglior canzone dell’anno, contenuta in quello che è per me l’album migliore dell’anno, Rough and Rowdy Ways, trentanovesimo disco di Dylan, che è chiuso da questo capolavoro. Con i suoi quasi diciassette minuti, “Murder Most Foul” è il brano più lungo della carriera di Dylan. Il pezzo, citando Shakespeare, prende le mosse dall’omicidio più scellerato della storia recente, quello di John Fitzgerald Kennedy, 35° presidente degli Stati Uniti. È un poema epico che narra la morte e la resurrezione (e poi, ancora, la morte) degli Stati Uniti stessi, degli Anni Sessanta, dell’intero secolo precedente e persino di quello attuale. È percorsa da immagini poetiche di una bellezza brutale cullate da un pianoforte leggiadro e da una batteria accarezzata. Passa in rassegna una lista infinita di eventi e momenti e poi di canzoni, artisti, attori e pellicole citati dal narratore al DJ Wolfman Jack, che nella sua cadillac ha il compito di “suonare” ogni cosa che la voce ipnotica e magnetica di Bob gli richiede. È una sorta di rievocazione di spiriti nella quale la vita sfida a viso aperto la fine.

(Samuele Conficoni)

CHARLI XCX, “claws”

Tra le altre cose, possiamo dire che il 2020 sia stato l’anno dell’esplosione dell’hyperpop. Tra i maggiori responsabili sicuramente Charli XCX e A.G. Cook, suo creative director e principale produttore dal 2016. Il duo, durante il primo lockdown causato da questa asfissiante pandemia, ci ha regalato “how i’m feeling now”, mixtape nato per raccontare la clausura forzata grazie a un progetto multimediale condiviso con i fan e raccontato tramite i social media.
Artisticamente più coraggioso del precedente “Charli”, terzo album ufficiale della songwriter inglese, “how i’m feeling now” rappresenta anche un’accelerata nei suoni e nell’estetica di Charli, ormai incontrastata regina di questo nuovo mondo musicale -l’hyperpop, appunto.
Nei dodici brani presenti, “claws” è un gioiellino di scrittura pop di due minuti e mezzo, con dentro i suoni ultra-HD di A.G. Cook e quel mix vincente di leggerezza e malinconia. Brani impossibili da tralasciare, pensando all’anno in corso, e chissà che grazie alla sua portata extra-musicale potrà essere uno dei brani a cui penseremo ricordando il 2020 e il lockdown.

(Matteo Mannocci)

FLEET FOXES, “Sunblind”

“I’m gonna swim for a week in
Warm American water with dear friends
Just intending that I would delight them
Swimming high on a lea in an eden

So I dream
So I dream”

Può una canzone che parla dell’assenza e del ricordo di persone scomparse essere struggente e al tempo stesso splendere nella brillantezza di una luce estiva? Robin Pecknold chiama a raccolta gli eroi che affollano il suo eterogeneo olimpo musicale; l’amico Richard Swift, Dave Berman, i musicisti che sono stati per lui una fonte di ispirazione, Marvin Gaye, Tim Buckley, Nick Drake, David Bowie. Li ritrova insieme in un luogo imprecisato del suo spazio mentale che probabilmente corrisponde al Parnaso, ma con vista sull’Oceano. Sostenuto dalle loro influenze imbraccia allora una Gibson o una Martin e si trova quindi immerso in un sole radioso in compagnia dei vecchi amici. Perché, come lo stesso Pecknold ha detto, “Music is this weird invisible form of immortality”. In questo anno drammatico in cui molti hanno fatto i conti con la morte, “Sunblind” celebra la capacità dell’arte di essere testimone dell’eredità di chi ci lascia e di esercitare il potere di donare gioia e speranza, al riparo dalla tempesta.

(Eulalia Cambria)

FONTAINES D.C., “No”

“No” è il brano che chiude il secondo album dei Fontaines DC, pubblicato quest’estate. Al di là de giudizio (molto più che positivo) sul disco nel suo complesso, questa ballata è quella che mi ha colpito già al primo ascolto, un vero e proprio momento catartico di “A Hero’s Death”. Pare quasi incredibile che cinque ragazzi poco più che ventenni, siano già in grado di comporre pezzi del genere. Cinque minuti ricchi di pathos che crescono di secondo in secondo e che risaltano nonostante la concorrenza di altri momenti del disco di grande livello. Potrebbe essere benissimo stato scritto da una band ormai navigata, nella sua piena maturità. Il quintetto irlandese ha dato dimostrazione di song writing di alto profilo.
La grandezza di brani simili è quella di toccare corde dentro chi ascolta sin dalla prima volta per poi crescere ancora di più alla distanza, senza più andare via dalla testa.

(Francesco Melis)

KHRUANGBIN & LEON BRIDGES, “Texas Sun”

Si intuisce subito che “Texas Sun” è un inno al viaggio: l’artwork della copertina dell’EP riporta immediatamente a solari scorribande su lunghe strade che attraversano spazi sconfinati; fin dalle prime note la suggestione del viaggio “on the road” cattura subito l’immaginario dell’ascoltatore. Chi ha provato la gioia di trovarsi su una strada verso chissà dove, spensierati e felici in compagnia dalla persona più importante per sé, in mezzo alla luce calda di un sole al tramonto, probabilmente con “Texas Sun” rivive quel momento. Il giovane trio texano Khruangbin, accompagnato da Leon Bridges, rende un meraviglioso omaggio a questa idea, al sole, alle strade e alle lande sconfinate del proprio paese. Riescono a farlo in un modo così efficace che se ne accorge anche Barack Obama, che include il pezzo nella sua playlist dei brani più ascoltati da lui e da Michelle nel corso della scorsa estate. E io li ringrazio per essere stati capaci di evocare in modo così efficace una sensazione positiva che ricorre nel nostro immaginario.

(Giorgio Lamonica)

LUKE HAINES & PETER BUCK, “Jack Parsons”

Probabilmente avrei potuto scegliere una canzone dall’ultimo disco di Bob Dylan (“Murder Most Foul”) o “Letter To You” di Bruce Springsteen, ma voglio premiare quello che considero, assieme a questi due, il miglior disco dell’anno 2020. Si dice che Luke Haines con gli Auteurs abbia “inventato” il brit-pop. Non so se questa affermazione sia esatta, ma per quanto mi riguarda la cosa è irrilevante, quello che è certo è che in termini di popolarità non ha mai raccolto quanto invece meriterebbe per la bellezza dei suoi lavori. Scrittore di canzoni bravo e intelligente come pochi, dotato di vere e proprie capacità narrative: “Baader Meinhof” (Hut Records, 1996), il wrestling, tutta la narrazione su Lou Reed e la mitologia di New York degli anni settanta, l’immaginario claustrofobico cyber-punk e post-apocalittimo di “British Nuclear Bunkers” (Cherry Red, 2015). In generale psichedelia, contro-cultura beatnik e manifesto. “Beat Poetry For Survivalist” (Cherry Red) è un album dedicato e ispirato principalmente alla figura dello scienziato e occultista Jack Parsons (1914-1952). Dentro ci sono le storie di fantasmi di “The Enfield Hauntings” (1978), il paranormale, citazioni di Donovan, il Bigfoot, Pol Pot e Andy Warhol. “Jack Parsons” è la canzone introduttiva, dedicata all’inventore del combustibile solido per razzi e seguace di Aleister Crowley: il programma spaziale americano gli deve moltissimo. Soffriva di depressione, morì in circostanze poco chiare, a causa di una esplosione nel suo laboratorio. Era ossessionato dal fatto che l’FBI lo perseguitasse a causa dei suoi rapporti con i servizi segreti israeliani. Secondo alcune testimonianze quando è morto stava lavorando alla creazione dell’”homunculus”. Dopo una cerimonia privata, le sue ceneri furono sparse nel deserto del Mojave. Ah, la canzone – come tutto il disco – è stata realizzata con la collaborazione di Peter Buck, alla sua prova migliore dai tempi di Robyn Hitchcock  & The Venus 3. Una vita fa, Luke gli spedì una demo degli Auteurs. Probabilmente quando si sono conosciuti, anni dopo, lo storico chitarrista degli R.E.M. non se ne ricordava neppure.

(Emiliano D’Aniello)

MAC MILLER, “Circles”

Tutti conoscono la storia di Giotto e di come si sia fatto ingaggiare da Bonifacio VIII attraverso la sua perfetta “O”: Giotto cioè, per far colpo sul suo possibile committente, non gli invia il suo miglior dipinto, ma solo quel semplice cerchio da cui si potrà comprendere la sua bravura. Ecco, Mac Miller sembra che abbia fatto lo stesso con “Circles”, donandoci questo pezzo rilassato (è come una “Walk on the Wild Side” degli anni duemila), positivo, circolare (“Drawin’ circles“), nel momento in cui lui non c’è più. Un brano che contiene tante verità, una sorta di visione individuale dello scorrere della vita che – personalmente – trovo corretta: “Watchin’ the world falling down its decline / And I can keep you safe, I can keep you safe / Do not be afraid, do not be afraid“. A tutti viene chiesto di cambiare il mondo, ma siccome solo pochi di noi lo fanno, basta tenere al sicuro le persone amate.

(Paolo Bardelli)

MEGAN THEE STALLION, Savage Remix (ft. Beyoncé)

Il Texas sta cambiando e da stereotipata roccaforte redneck sta diventando una terra demograficamente sempre meno bianca e tradizionalista. Due generazioni e due artiste a confronto, una nata nel 1981, l’altra nata nel 1995 sempre a Houston, una musa ispiratrice e l’altra adepta e erede “savage rap”. Beyoncé fa da ospite come solo lei in uno dei brani più pop e trascinanti della talentuosa Megan Thee Stallion che senza ancora un LP all’attivo, grazie a tre anni di mixtape e tracce fulminanti si è imposta come una delle rapper più affilate e promettenti della sua generazione. Da quanto si narra si sono incontrate nell’ultimo party di capodanno e hanno deciso di collaborare. Doveva ancora arrivare il maledetto 2020, la pandemia e tutto il resto, ma “Savage” era un brano che già sputava veleno centrando come poche altre tracce uscite quest’anno lo spirito della femminilità contemporanea nella sua accezione artisticamente e socialmente più alta e autentica. C’è l’incedere. C’è la produzione. C’è un testo dannatamente a fuoco e infuocato. E soprattutto c’è il flow. I’m a savage, Classy, bougie, ratchet, sassy, moody, nasty, yea.

(Piero Merola)

Mourning [A] BLKstar, “Sense of an Ending”

I Mourning [A] BLKstar, collettivo musicale di Cleveland (Ohio) ormai al quinto disco con “The Cycle” (Don Giovanni Records), riescono dove quasi tutti falliscono: essere politici (nel senso greco del termine, fare parte della sfera pubblica e comune) anche parlando di amore e di sentimenti. Non esiste, forse, una canzone migliore di “Sense of an Ending” per descrivere a livello emotivo lo spirito sociale e umano della contemporaneità: caotico e dispersivo. Il senso di una fine di un amore è descritto, musicalmente parlando, in maniera prima dissonante e poi soulful: il loop martellante in apertura di brano è la chiave di volta, l’elemento essenziale per lo sviluppo di tutta la canzone: un gospel futuristico, magmatico di dichiarazioni a cuore aperto contro l’individualismo dei sentimenti. Il ritornello recita (quasi) all’infinito: “Never love, never love, never love alone”. Mai parole sono risuonate più vere e allo stesso tempo stranianti in questo 2020.

(Monica Mazzoli)

MUZZ, “Red Western Sky”

In “Red Western Sky” si sente un’eco da cinema americano (“Thereʼs a team from the east and theyʼre trying to pull me back and Iʼm dragging my feet/but when I get that check man Iʼm gonna fire it/The bees in the frying pan/The shards in the carpet”), con una tonalità che ricorda proprio gli amplificatori valvolari per un suono caldo dal carattere analogico capace di creare tensione. I tocchi di stile magici di Kaufman sono in tutto l’album, e anche se discreti per questo particolare pezzo, il piano/organo dissonante rende la sua apertura esuberante e lo accompagna con eleganza fino alla fine, emanando una sorta di intensità attenuata e sacrale. E’ anche altrettanto difficile immaginare l’identità unica dei Muzz senza le abilità uniche di Barrick tra mondi di generi quasi completamente opposti, qui spinto da percussioni espressive, secche e soffocanti. Un raffinato stile percussivo che è protagonista ma senza prepotenza, lasciando molto spazio anche alle dosi inventive e ossigenanti dell’organo gorgogliante di Kaufman. Sarebbe ingiusto ovviamente non regalare l’enorme importanza allo stile vocale distintivo di Banks che ci cattura puntualmente e con sentimentale nostalgia.
“Red Western Sky” ci tira con se nel suo vortice ventoso, musicalmente magistrale, con il ritmo di batteria ciclico, l’euforia del piano, l’oscurità del cantato familiare ai fan degli Interpol, creando uno scenario sonoro visionario, rimescolando e condensando una ricca varietà di suggestioni senza snaturare nessuna delle tre identità consolidate, senza ripetere un canovaccio scontato, il tutto riassunto in un unico comune denominatore della firma riconoscibile di una band nella quale musicisti di alto spessore, e tra loro anime gemelle, risaltano singolarmente per un’elevata capacità artistica e straordinaria forza espressiva in un’eleganza senza tempo. Si direbbe dunque da questo brano che, nel suo percorso circolare, Banks anche questa volta non si sia allontanato troppo da terreni battuti nel suo passato, benchè l’essenzialità di un pezzo come questo lascia solo intravedere chiaramente un sentiero decisamente proiettato verso innovative fondamenta di alchimia.

(E-Lester Burnham)

PHOEBE BRIDGES, “Savior Complex”

Una relazione si traduce spesso in un rapporto di intimità che genera interazioni inspiegabili, difficili da interpretare e da controllare. Phoebe Bridgers però riesce a mettere quello che serve in una canzone per tradurre il suo universo di intimità e per esprimere al meglio il conatus, lo sforzo di una resistenza continua.
“Savior Complex” è un climax silenzioso del disco Punisher, uscito nel 2020. Il disco è personalizzante nel senso che è costruito su testi, temi e suoni che disvelano le profondità di Phoebe Bridgers.
“Savior Complex” è esattamente l’ “Emotional affair” evocato all’inizio del brano. L’istinto ci porta ad uscire dalla gabbia di ferro dei facili razionalismi e perdersi in un mondo doloroso, ma necessario. C’è bisogno di fare brutti sogni e non nasconderli, non a caso l’outro del pezzo è emblematico in questo senso: “All the bad dreams that you hide/ Show me yours”.
La canzone è venuta fuori da un incubo, ha raccontato Phoebe a Stereogum, ed effettivamente a rivivere nel testo del brano c’è proprio il terrore di scoprirci umanamente e socialmente deboli. Nella debolezza più estrema però non c’è complesso del salvatore che tenga.
Freddy Kruger in A Nightmare on Elm Street spunta fuori in un incubo facendo una semplice domanda all’ignara vittima: “Remember me?” Savior Complex nasce così, con la stessa urgenza, un misto tra minaccia e promessa che è estremamente difficile da interpretare, ma quest’aspetto lo rende sicuramente uno dei brani più affascinanti del 2020.

(Gianluigi Marsibilio)

SAULT feat. MICHAEL KIWANUKA, “Bow”

All’interno di un lavoro complesso e multiforme qual è “Untitled (Black Is)”, il terzo realizzato dal collettivo britannico nella data del 19 Giugno, in cui ricorre la Liberazione dalla Schiavitù in America, spicca “Bow”, traccia numero nove (di venti) che li unisce a Michael Kiwanuka (fresco di vittoria del Mercury Prize) e che ho ascoltato a dismisura in questo 2020. Il lemma ha diverse traduzioni, significa arco ma anche riverenza. Come uno strumento da utilizzare pacificamente per non abbassare più la testa, questa canzone è un inno a tutti i popoli oppressi, un appello ai diritti universali in una miscela sapiente di ritmi afro-beat con una linea di basso hip-hop prodotti da Inflo e i virtuosismi chitarristici di Kiwanuka, tra Richie Havens e i Funkadelic passando per lo stile open-tuned di Joni Mitchell. La voce di Michael ci guida in un elenco di luoghi vessati da guerre e odio (“Blood Thicker than Water”) che tocca la maggior parte delle nazioni africane ma anche Giamaica, India e Asia; chiede giustizia per Bobi Wine, trentottenne leader dell’opposizione e candidato alla presidenza in Uganda, arrestato e rapito dalla Polizia Locale. Nel refrain “We Got Rights”, ancor più forte dopo l’omicidio di George Floyd dello scorso 25 Maggio, i Sault chiamano all’azione tutti quelli che hanno a cuore la nostra società, l’integrazione, il futuro. E “Bow” è il manifesto – insieme a “Street Fighter”, “We Are The Sun”, “No Bullshit”… – della loro grandeur musicale che ci porteremo dietro sempre e ovunque da ora in avanti.

(Matteo Maioli)

TAME IMPALA, “Lost In Yesterday”

Il presupposto è che il 2020 non è un anno solo. È da quattro anni che siamo nel 2020. Il quarto singolo estratto da “The Slow Rush” è stato pubblicato l’8 gennaio, quindi il ricordo di quel primo ascolto è così lontano che a grandi linee lo colloco a quando facevo le medie. Ma è anche un ricordo nitido da far paura: il sole fra i pini e i palazzi, questa sorta di tarantella con la strofa più fluida e immediata dai tempi di “Moonlight Shadow” e mio figlio (allora prossimo ai due anni di età) che imbraccia la chitarrina verde e fa headbanging come mai prima. È una canzone pop. È la traccia più diretta di un disco anche parecchio discusso. È quella che cerca l’impatto e per ciò che mi riguarda lo trova. Quindi per mesi (o anni) l’ho ascoltata per un valore intrinseco così come per un sapore tutto emotivo e nostalgico. Il fatto poi che questo tipo di vissuto poggi su una canzone che dall’inizio alla fine esorta a non vivere nel passato (e soprattutto a non leggerlo in un senso univoco) è un cortocircuito di quelli che piacciono a me. Canzone dell’anno ma lo sapevo dall’8 gennaio.

(Marco Bachini)

THE REDS, PINKS AND PURPLES, “You Might Be Happy Someday”

La solita, sfigata, solitaria, romantica, utopica illusione che i messaggi migliori arrivano da una cameretta, attraversano il mondo, entrano nella tua stanza piena di dubbi e di paure e te li spazzano via, perché hanno un potere inimmaginabile. Ho scritto direttamente a Glenn Donaldson, responsabile del progetto The Reds, Pinks and Purples, di base a S. Francisco, ringraziandolo personalmente per questo mucchio di canzoni, tra cui “You Might Be Happy Someday”. Mi ha risposto semplicemente “Grazie”. Ma posso vedere il sorriso, il grado di empatia tra noi persone che ci emozioniamo per fragili melodie, per le compilation della Sarah Records, per la gentilezza, per il rispetto delle persone. Ed in questo difficile momento di immobilità, sapere che dentro quattro mura c’è chi ancora continua a sognare come il sottoscritto, non può che farmi sentire felice.
Almeno qualche volta.

(Nicola Guerra)

TRICKY, “Throws Me Around”

E’ stato un anno di belle uscite e vita meno bella, questo, e non sarei stata sincera con me stessa se avessi scelto un brano ballabile o particolarmente ottimista (anche se ne ho ascoltati alcuni che non erano male, nel momento di tregua dell’estate). “Fall To Pieces” è uscito il 4 settembre; è interamente dedicato alla figlia di Adrian Thaws, Mazy Mina, e alla sua scomparsa. In “Throws Me Around” l’album si avvia al finale e quel throws suona più come un froze: il fallimento di Tricky come padre trova conforto, perlomeno, nella capacità di raccontare così limpidamente il suo lutto prima di un autunno che è diventato, prevedibilmente, l’inverno più gelido che abbiamo vissuto finora. E il brano stesso, facendo risuonare in modo così candido e scarno un dolore senza possibili termini di paragone, rivendica il ruolo dell’arte come forma di resistenza alla morte: “ho sofferto, sono stato bugiardo e distante, freddo, ma sono ancora qui per confessarlo” sembra dire, e intanto il beat del brano è heartbeat, il battito cardiaco di chi è sopravvissuto. Tricky, questo battito, l’ha reso musica che non lascia soli.

(Claudia Calabresi)

YVES TUMOR, “Gospel For A New Century”

Metto subito le mani avanti: io sono una persona molto album-oriented, quindi separare le singole canzoni dai dischi è un esercizio che mi ha sempre messo a dura prova.
Uno degli ultimi concerti a cui ho potuto assistere è stato quello di Yves Tumor. Un live su cui vanno messi alcuni asterischi, ma che mi aveva dato la possibilità di avere un’altra chiave di lettura su uno dei miei artisti preferiti. Yves Tumor live è qualcosa che mette assieme glam e noise, ma c’era un altro aroma dietro che non riuscivo del tutto ad identificare, per quanto passassero giorni, settimane e mesi.
Poi è arrivata “Gospel For A New Century”. C’è stato un verso che si è immediatamente fissato nella mia testa: “come and light my fire, baby”. E no, non siamo davanti ad una cover della canzone targata The Doors.
Non pensavo qualcuno avrebbe potuto riutilizzare un verso talmente tanto noto nella storia del rock, in un pezzo che possiamo definire a tutti gli effetti rock. Ma improvvisamente questa canzone connetteva i vari puntini e risolveva i miei enigmi su cosa mi avesse affascinato davvero nel live di Yves Tumor mesi prima: non avevo mai visto un live rock così carnale e sensuale, come probabilmente doveva essere una performance di Jim Morrison.
“Gospel For A New Century” è un pezzo che re-inventa il rock come modo di fare musica carica di sesso, andando da tutt’altra parte rispetto al rock più introspettivo e “conscious” con cui la mia generazione si è trovata ad avere a che fare.
C’è sesso nel loop di batteria in apertura che sembra preso da un vinile saltellante di James Brown. C’è sesso nel basso che pulsa per tutto il pezzo. C’è sesso nel modo di cantare di Yves Tumor, ad un passo dal gemito, che è impossibile non associare a Prince.
Detta così sembrerebbe di trovarsi davanti ad un pezzo manieristico, ma la magia del pezzo risiede nel quantitativo di distorsione che spinge al limite il funk ed il groove che lo pervadono. Strati e strati si aggiungono durante tutta la durata della canzone, senza che la cacofonia sovrasti il flusso del brano. Mi ero appena ripreso dal modo in cui Yves Tumor aveva reinterpretato un certo alternative rock con il precedente album e di colpo questo pezzo mi ha catapultato in un mondo sonoro completamente diverso.
E poi, nel 2020, come si fa a non restare aggrappati ad un verso come “how much longer until December?”.

(Carmine D’Amico)