Alla scoperta di Alèfe, “Hidden Chamber” e le sue ispirazioni


Nel corso degli anni le composizioni di Alessio Festuccia aka Alèfe hanno accompagnato installazioni multimediali, spazi culturali e progetti audiovisivi. Insieme all’attività di musicista e producer in altri progetti elettronici come Tersø e Mr Everett, dà vita al suo progetto solista diversi anni fa, portato ora a compimento con la pubblicazione del primo album “Hidden Chamber”, in uscita per Vulcano.

Alèfe traduce lo stimolo del cambiamento e l’infinito piacere del viaggio in un orizzonte sonoro: “Hidden Chamber” è una collezione di ricordi maturati in cinque anni tra progetti collaterali e home-studio in un ciclico trasloco, che parte da Amsterdam e arriva a Londra. Il viaggio di Alèfe attraversa percorsi ossessivi in cavalcate di bassi alternati a distese oceaniche di sample vocali che suonano come canti di sirene, in ripetizioni ipnotiche. 10 tracce concatenate per scappare dalla rigidità della convenzione elettronica, verso una nuova forma di polimorfismo sonoro.

Com’è nato l’album? Era pronto prima del lockdown? Parlaci dell’atmosfera di Londra nella quarantena.
“Hidden Chamber” è nato molto prima del lockdown. Anni prima, in verità. Come spesso accade per gli album d’esordio, il disco è una collezione di pezzi scritti nel corso di anni, composti principalmente negli spazi di tempo ritagliati tra tour, lavori e altro “studio time” di vario genere per altri progetti musicali e audiovisivi. Non ha molto a che fare con il virus e il lockdown.

La quarantena però sì, l’ho trascorsa qui a Londra, dove vivo. Mi ha ispirato e mi sta ancora ispirando a comporre di più, in un paradosso per cui avere tanto tempo libero a disposizione non equivale necessariamente a disporre di una concentrazione adeguata. A volte però, anche nella tranquillità domestica, basta poco per entrare “in the zone”: quello stato mentale in cui ogni pezzo del puzzle musicale, loop, campione, riff, sembra cadere al posto giusto. E allora lì basta davvero solo seguire il proprio istinto, e non si può sbagliare.

L’atmosfera che si respira a Londra era sicuramente più distesa e rilassata all’inizio del lockdown, non si è mai davvero entrati in un sistema di restrizioni come quelle imposte in Italia. Ovviamente ora, a seguito delle proteste relative a Black Lives Matter, il clima è tornato giustamente più vibrante e la città sicuramente più busy, un po’ più affollata, in una parvenza di normalità.

Cosa ti ha ispirato in “Hidden Chamber”?
“Hidden Chamber” è un compendio di esperienze e influenze molteplici: per me ascoltarlo equivale per a sfogliare un grande album di foto in cui ogni suono, ogni sample, è un ricordo di un determinato periodo della mia vita negli ultimi sei anni. Il fatto che sia stato composto in ritagli di tempo non ne fa assolutamente un prodotto secondario, anzi. Ho sempre fatto molte cose insieme e cercato di fare in modo che tutti gli input diversi entrassero direttamente o in modo trasversale nella mia produzione musicale, e in qualche modo credo sia andata proprio così. A volte è un sample passato da un amico, a volte un improvvisazione al piano registrata sul telefono, a volte un loop trovato in giro. Può essere davvero una qualsiasi di queste cose. Gli ascolti musicali ovviamente sono determinanti: ascoltando un mio vecchio provino riesco chiaramente a capire con quali dischi ero in fissa mentre ci stavo lavorando. E senza dubbi spesso i nomi sono Mount Kimbie, Lapalux, Flying Lotus, Iglooghost (sì, la Brainfeeder su tutte), ma anche Rival Consoles, Flume, Bibio.

Da quanto sei a Londra? Cosa sta succedendo di interessante a livello di novità che ancora non sono del tutto arrivate da queste parti? 

Sono in UK da relativamente non tantissimo, ma è una città che già prima del trasferimento frequentavo da anni.
A causa della pandemia, qui come ovunque, tutto sembra essersi fermato, quindi non saprei davvero se ci siano cose interessanti che stanno accadendo. Se dovessi davvero pensare a una novità parlerei di un certo tipo di awareness (per dirla tutta: white awareness, partita ovviamente dai fatti negli USA) nei confronti del problema razziale, particolarmente radicato nella cultura Inglese per via del passato colonialista del paese troppo spesso mascherato da orgoglio nazionalista e con cui finalmente una certa parte del paese deve fare i conti pubblicamente. Devo riscontrare con sollievo che, al contrario dei trend normali, questa tendenza pare si stia diffondendo senza alcun ritardo di sorta anche altrove. Persino in Italia: forse in altri termini, certo, ma dove la proporzione del dibattito non dovrebbe essere da meno.

KEYS TO THE CHAMBER

“Questa è una playlist che ho voluto mettere insieme per spiegare la genesi di Hidden Chamber e, in qualche modo, fornirne una chiave di lettura. Da qui il nome: “Keys to the Chamber”.

Descrivo sempre il disco come un meccanismo a incastro in cui ogni pezzo “sblocca” il successivo, una grande scatola cinese sonora da ascoltare -come tutti i concept- di fila, per essere compreso al meglio. Si apre e chiude simbolicamente con due pezzi di Björk da Drawing Restraint 9 (la colonna sonora per l’art-movie sperimentale dell’allora marito Matthew Barney), forse tra i suoi album meno conosciuti, ma che ho usato in maniera massiccia nelle mie prime composizioni per riferimento e campionamento.

Tutto i pezzi che si trovano nella playlist sono capi saldi della mia formazione musicale. Pezzi più scuri e pezzi più da club dove si possono rintracciare elementi musicali che rimandano direttamente al mio sound e spero possano fornire una chiave interpretativa valida per capire il mio album o, quantomeno, un’oretta e quaranta di svago.”