CARIBOU, “Suddenly”, (Merge Records, 2020)

C’è stato un tempo in cui Caribou, a dispetto del basso profilo, era di gran moda, laddove andar di moda significa unire trasversalmente pubblici assai diversi. “Swim” e “Our Love” sono stati due capisaldi dell’incontro tra scrittura pop e approccio da DJ in senso abbastanza stretto. “Swim” (2010) probabilmente più dirompente, “Our Love” (2014) più ordinato, nerdy, perfetto, da invidiare.

Ora, vuoi per il tempo che è passato (nel 2014 Renzi vinceva le europee e Arisa Sanremo, per dire), vuoi per un bisogno di esprimersi attraverso il sé declinato con i parametri della propria storia anche recente, “Suddenly” prende le corrette distanze da quei lavori. Forse, a dirla tutta, la traccia che diversi mesi fa  presentava l’album  al mondo sembrerebbe anche la più fuorviante: “Home” con il suo taglio soul che campiona e letteralmente ingloba l’omonima canzone di Gloria Barnes non rappresenta esattamente l’umore di questo disco. Però dice bene della volontà di confondere un po’, di sorprendere e in  questo senso è funzionale.

Sì, viene da fare una track by track anche se è una pratica che non incontra i princìpi dello scrivere di musica oggi. Però qui ogni canzone è una storia, una traiettoria di vita dell’autore, un nodo che concorre a spiegare il tutto, un tutto molto intimo, familiare, nostalgico. Tra l’altro, finalmente c’è una copertina monocromatica al posto delle tavolozze policrome degli ultimi. Di colori ne ha già così tanti la musica dentro che non servivano in un’immagine di copertina  piacevolmente uniformante. Uniformante come il cantato carezzevole di Dan Snaith che dà un un taglio cantautorale anche ai momenti più dance. Volendo ci sono echi di “Andorra”, l’album che precedette “Swim” (nella traccia “Lime”, per esempio) o, spingendosi oltre, anche cose di quando il canadese si faceva chiamare Manitoba. Della struggente bellezza di “You And I” ho già scritto da qualche parte qui intorno e di quanto riesca a ricordare, senza scopiazzarli, nomi poi spariti dentro agli anni ’10, tipo i DVAS. “Never Come Back” (insieme alla cugina di primo grado “Ravi”) è il momento più vicino al Daphni (il progetto parallelo e più ballabile di Snaith) del recente “Joli Mai” e forse, sorprendentemente è la vetta del disco: vocine pitchate, anni ’90, nostalgia che ti strozza amichevolmente.

Ho la sensazione che l’uscita dal focus dei riflettori congiuntamente alla diversificazione delle proposte (Caribou da una parte e, appunto, Daphni dall’altra) non stia facendo male al ragazzo, che a 42 anni sembra lo stesso vecchio di quando era giovane, quindi ok. Ed è quello che accade pari pari alla sua musica: Caribou aveva la capacità di ricreare il sapore agrodolce della nostalgia anche quando esprimeva un suono più “contemporaneo”. Figuriamoci quanto  gli viene bene ora che su queste sue composizioni si stende una patina naturale che le rende magnificamente sfuocate.

78/100

(Marco Bachini)