THE BLACK LIPS, “In A World That’s Falling Apart” (Fire Records, 2020)

“In A World That’s Falling Apart” (Fire Records) è uno di quei dischi che sono fatti per piacere praticamente a tutti. Il gruppo suona quel garage rock facile, orecchiabile e miscelato a forme di ballate country-rock americana all’ombra di quello che si vorrebbe Bob Dylan e un combat folk tipo Clash, che chiama a raccolta un pubblico che guardandomi attorno mi domando a tutti gli effetti se ancora esista. Ammesso che sia veramente mai esistito.

Proprio questa mattina leggevo peraltro la guida agli “anni dieci” del nostro Paolo Bardelli. Non ho ancora finito di leggere tutto il libro, ma a parte l’introduzione, per adesso sono saltato direttamente alla parte che riguarda i cinquanta dischi, trovo che alcune osservazioni in esso contenute siano puntuali e possano in qualche maniera spiegare che cosa penso di questo disco.

Come e dove dovremmo collocare questo disco dei Black Lips, il gruppo di Atlanta, Georgia, all’interno del mondo musicale contemporaneo. Le canzoni sono tutte forzatamente orecchiabili come un disco rockabilly degli anni cinquanta, alcune canzoni sembrano quasi dei jingle pubblicitari, tutto è molto allegorico e allo stesso tempo “rustico”, sembra di stare a una specie di festa tipo rodeo e magari se sei alla festa, ti metti pure a ballare fregandotene di quello che sta suonando, però poi dopo non è che questa processione di cliché poi te la vuoi portare a casa.

Nel migliore dei casi mi viene da pensare a roba tipo Conor Oberst and the Mystic Valley Band oppure Langhorne Slim, anche se quest’ultimo ha sicuramente una scrittura migliore e sa scrivere pure buone canzoni, qui invece non ce ne sono oggettivamente di pezzi che lascino il segno. Il fatto è che completamente scollati dalla realtà, i Black Lips in questo disco non si preoccupano affatto di essere “impegnati”, scelgono una specie di ritiro che però non ha niente di rivoluzionario o alternativo e allo stesso tempo niente di trasgressivo oppure che richiami trip acidi e psichedelici degli anni sessanta. Non è detto, certo, qui ritorno alla guida agli anni dieci di Bardelli, un disco debba essere per forza rappresentativo del momento, oggi possiamo accedere in buona sostanza a una quantità di musica che è abbondante e variegata, paradossalmente illimitata, e non tutto quello che esce è “importante” e non tutto quello che esce è puntuale e magari qualche cosa segna un “punto” che può avere senso solo per chi lo registra oppure solo per pochi. Ma qui c’è una totale indifferenza e secondo me se sei indifferente e fai un disco, dici una cazzata, perché mai allora avresti dovuto registrarlo. Quindi significa che fai sul serio e che qui veramente il gruppo non aveva niente da dire. Nessuno chiede qualche particolare processo spirituale, ma la superficialità no, non penso che abbiamo poi tutto questo tempo da perdere.

40/100

Emiliano D’Aniello