TAMARYN, “Dreaming The Dark” (DERO Arcade, 2019)

E mi trovo di nuovo a fare i conti con Jorge Elbrecht. A proposito, dove eravamo rimasti? Al suo disco più propriamente solista? Alla produzione dell’ultimo Wild Nothing? Al nuovo capitolo del progetto metal  chiamato Coral Cross? Bene, anche del primo dei singoli (“Fits Of Rage“) di questo disco di Tamaryn Brown avevamo detto qualcosa.

“Dreaming The Dark” esce ora su DERO Arcade ed è dunque prodotto e plasmato da Elbrecht, proprio come il precedente “Cranekiss” (che uscì su Mexican Summer). Anche questa volta ritroviamo i cardini tutti della collaborazione tra la neozelandese (di origine, non di casa) e il chitarrista di Ariel Pink. Non mancano i sintomi di un ben noto universo dark, così come le nuvole dream pop e il gusto per le melodie intrecciate. La firma di Elbrecht sta soprattutto lì, su quest’ultimo punto.

Emblematica, su tutte, suona tale “Victim Complex”. Ha strofe che salgono come succede con certi instant classics e coro che scende sbarrando la strada a quella che poteva essere un’onesta hit. Il cuore melodico e implosivo di questa canzone si ripete quelle due misere volte e poi arriva un finale in fade out. È tutto così minuziosamente irritante e ispirato. Un coitus interruptus predisposto per usare l’icona play a oltranza, come per vedere se al giro successivo la cosa andrà diversamente o sarà esattamente così. E un play dopo l’altro, rimane lì nelle sue imperfezioni, dio le benedica quelle imperfezioni. Che poi è quel che succedeva con le robe Cold Wave tipo Martin Dupont.

In un album così, più ancora che Siouxsie o i Cocteau Twins è bello scorgere i Simple Minds di “New Gold Dream” (prendete “Angels Of Sweat”) o, passando a un’altra epoca, M83 con Morgan Kibby. A tratti (in “Terrified”, per esempio) sembra di sentire la Ciccone dei momenti più slow di “Like A Prayer”, intendo l’album. Quelle contenute in “Dreaming The Dark” sono canzoni potenti, ricche e stratificate. Per mano di Elbrecht, sterzano sempre un centimetro prima di poter sembrare vagamente prevedibili. Fanno riferimento ad un mondo che tutto è fuorché di moda (anche se non mi meraviglierei se in certe serie…). È un disco di genere, canonico ma di un’eleganza che lo preleva con le pinze da un discorso strettamente doom pop e lo sparge nell’aria, dove dovrebbe stare.


75/100
(Marco Bachini)