JULIAN LYNCH, “Rat’s Spit” (Ya Reach / Underwater Peoples, 2019)

Quello di Julian Lynch è un percorso ormai decennale inaugurato con “Born2Run” nel 2009. L’artista, di base nel Wisconsin, ha privilegiato inizialmente la carriera solista affiancandola in seguito alle collaborazioni coi Real Estate, insieme ai quali ha prodotto un disco e una manciata di live. Con “Rat’s Spit” per Underwar People, l’etichetta indipendente fondata da alcuni amici del college, il sofisticato performer, intascato un dottorato in etnomusicologia con una tesi sull’inquinamento acustico nelle strade di Mumbai, realizza il settimo album in studio. Se nel precedente “Lines” (2013) l’impianto, sulle orme degli allusivi “Terra” (2011) e “Mare” (2010), era un pop sperimentale retrofuturista disteso su schizzi frammentari e fascinazioni rarefatte, questa volta la forma delle canzoni assume contorni più precisi e Lynch sembra finalmente aver raccolto le idee.

Sulla scia di un inebriante pop psichedelico, adagiato in riverberi vocali e chitarre effettate, l’LP arriva a compiere una maturazione nella ricerca estetica del cantautore originario di Ridgewood nel New Jersey: dall’apertura (“Catapulting”) che si dilata progressivamente ad accogliere sfumature elettro-folk intervallate dagli interventi di chitarra wah wah sopra il progressivo crescendo di un tappeto d’organo, le note si fanno interpreti di un intarsio che alterna arpeggi acustici e armonie trasognate come dei Crosby, Stills, Nash & Young immersi in salsa dream pop (“Meridian”). In alcuni momenti, quando l’atmosfera diventa più briosa, la psichedelia di Lynch si avvicina a certe trovate degli Animal Collective (la title track, “Rat’s Spit” e “Peanut Butter” con una lunga coda ipnotica e rumoristica quasi raga, cadenza che torna preponentemente anche in “Baa”). Più curata e a fuoco risulta la produzione di “Strawberry Cookies” in cui tenui suoni di sintetizzatori accarezzano la linea melodica del cantato fino ad evocare i momenti più soft dei My Bloody Valentine. Il disco prosegue con “Hexagonal Field” e si chiude con la malinconica “Reallu” che congeda nella coda un chiassoso pasticcio sonoro.

Se l’album configura un buon lavoro condotto sui suoni e se nei brani risulta efficace la verve onirica e nebulosa, il musicista difficilmente si trattiene dal riproporre a più riprese il medesimo schema compositivo. Vero è che “Rat’s Spit”, dopo una pausa lunga quasi tre anni, segna un passaggio importante nella discografia di Lynch. Gli echi sognanti e le dense stratificazioni vocali si rincorrono in un disco che, al netto di una certa già citata monoliticità espressiva, è a tutti gli effetti un piccolo gioiellino pop.

 


(Eulalia Cambria)

75/100