JAMES BLAKE, “Assume Form” (Polydor, 2019)

It is only ever a good thing to talk about what is on your mind (…) The road to mental health and happiness, which I feel so passionately about, is paved with honesty”: potrei scrivere che la recensione del nuovo album di James Blake inizia e finisce con queste sue parole, scritte sul suo profilo Twitter a qualche giorno di distanza dal lancio del primo brano estratto “Don’t Miss It”, e sarebbe di sicuro la scelta più gentile e rispettosa che potrei prendere. “Assume Form” è infatti che il racconto di come il producer inglese sia arrivato ad una nuova, sofferta e per certi versi insperata serenità emotiva e personale.

Una specie traguardo di vita, che arriva a otto anni di stanza dal suo esordio discografico, quasi a chiudere un cerchio: ed è proprio da quel disco uscito nel 2011 – l’omonimo “James Blake” – che forse vale la pena iniziare a scrivere di questo nuovo “Assume Form”. Sono le copertine dei due album a raccontarci molto: nel primo, il volto di Blake è deformato da sfumature e doppie esposizioni, come a nascondere la sua vera identità; sulla copertina dell’ultimo disco invece il suo volto è ritratto senza filtri, in una posa del tutto naturale, distesa. È evidente a tutti: qualcosa è cambiato.

Cosa? Per rispondere a questa domanda può essere necessario qualche ascolto, ma la risposta è inconfondibile, celata più o meno velatamente lungo le canzoni e attraverso le liriche: James Blake si è innamorato. “Assume Form” può essere sinteticamente descritto come il racconto di una persona che ha conosciuto l’amore. In tutta la sua durata il disco emana infatti un inedito e sorprendente calore umano, una sensazione di serenità lontana da quelle tormentate costruzioni eteree e sapientemente artefatte che hanno reso il producer inglese uno degli artisti più importanti di questo decennio. Non che la dimensione umana e quella affettiva mancasse nei suoi tre lavori precedenti – la pacca emotiva di pezzi come “Retrograde” e “The Wilhelm Scream”, e in generale ogni suo album ha parecchio a che fare con la varia gamma dei sentimenti – ma qui è decisamente tutto molto più a fuoco, ripulito da quel sapiente lavoro di overlay, dilatazioni, frammentazioni e sintetizzazioni che invece hanno contraddistinto gli album usciti fino ad ora.

Come in “James Blake”, “Overgrown” e “The Colour In Anyhting”, anche in “Assume Form” c’è insomma un cuore che pulsa: l’elemento di novità qui però è che per la prima volta Blake non di nasconderlo o ripararle dalle intemperie del mondo esterno. L’iper-lavorazione sulla superficie dei suoni, che in passato faceva da filtro tra le canzoni e il suo autore, tra l’autore e il mondo di fuori, ha lasciato il posto ad una nuova sicurezza, alla volontà di mostrarsi del tutto – e tutto ciò sia come artista che come uomo fatto di carne e sentimenti, nella sua forma corporea più onesta e concreta: è lui stesso a dirlo nella title-track, che è anche non a caso la prima del disco, quando il verso “I wanna assume form, I’ll leave the eather” interrompe un ondivagare di sinistre tensioni sonore e apre ad un finale che abbraccia, caldissimo, l’ascoltatore. In quel momento, James Blake sta salutando il James Blake che riusciva a congelarci le emozioni in cubetti di ghiaccio bollenti: quello che si presenta ora è un uomo che ha scoperto la necessità di uscire allo scoperto.

In questo senso, esemplari sono alcuni passaggi del disco: la devozione che si prova nei confronti della persona che si ama contenuta in “Into the red”, gli zuccherosi sample e il ritornello continuo di “Can’t believe the way we flow”, forse il momento più arioso e spensierato dell’album, quella serenata di “I’ll come too” che boh a me fa pensare al Frank Ocean che rifà “Moon River” e anche “Power On” per come racconta delle serenità che si prova nel ripensare alle persona che si era prima di diventare sé stessi. In quei brani le liriche si amalgamano tra loro, trascendendo i confini delle canzoni: quello che abbiamo nelle orecchie, alla fine dell’album, è il racconto, uno solo, di una maturazione che è prima umana e poi artistica – e del senso di meraviglia che genera nell’autore. “Can’t believe the way we live together” è la sorpresa di scoprirsi amati e innamorati, “I’ve nothing to lose with you / I’m in that kind of mood” è la serenità di chi riesce a raccontare i suoi sentimenti senza paura, “I thought I might be better dead, but Iwas wrong” è la frase di chi ci ha messo un po’ ma ora ha capito tutto dalla vita.

“Assume Form” è insomma il disco con il quale James Blake dichiara finalmente di conoscersi davvero: è una presa di coscienza non solo legata ai sentimenti, ma anche alla produzione prettamente sonora. Al suo interno infatti non ci sono solo le meravigliose ballatone che l’hanno reso l’artista che è, ma c’è spazio anche per alcuni episodi in cui le collaborazioni e le sperimentazioni black prodotte finora (e sono tante, da Kendrick Lamar a Beyoncé, da Frank Ocean a Vince Staples) arrivano a compimento, diventando parte importante della sua gamma di produzioni. Sicuramente in questo senso va citato Dominic Maker dei Mount Kimbie nel ruolo di produttore dell’album, ma la sua influenza appare quasi impalpabile, visto che l’output che ascoltiamo è in puro stile Blake: i beat notturni di “Mile High”, il pezzo dalle venature trap realizzato con Travis Scott e Metro Boomin, contiene forse una delle frasi-chiave del disco, “Lesson’s always there / That Less is always more / When you’re alone with me”; i battiti ansiogeni su cui è costruita “Tell Them” sono impreziositi dal canto salato di Moses Sumney; “Where’s The Catch?”, prodotta a quattro mani con Andre3000, mette in scena tensioni emotive inframmezzate dai preziosi flow di disillusione e paranoie cadenzati con maestria dal tuttofare di Atlanta. Nel pacchetto dei featuring va inserita anche “Barefoot in the park”, con l’astro nascente del new-flamenco Rosalìa: un mix, il loro, dai contorni sensuali e dolceamari perfettamente calibrato.

Poi c’è “Don’t Miss It”, il singolo uscito la scorsa estate, forse il brano più maturo ed intenso di tutta la sua produzione, forse il brano senza il quale questo album non esisterebbe. La voce di Blake incespica incerta nella stesura degli errori commessi in passato, delle leggerezze, delle rinunce, delle sofferenze represse e dei futili sollievi utilizzati nel tempo per nascondere le proprie debolezze. Un momento tanto sincero, tanto intimo quanto toccante, nel quale Blake sembra quasi rivolgersi a sé stesso, per mettersi in guardia dalla persona che sarebbe potuto diventare se le cose fossero andate diversamente: “When you stop being a ghost in a shell / And everybody keeps saying you look well / Don’t miss it / Like I did“.

Un disco sull’accettazione, sulla comprensione, sul coraggio, sull’amore. Se prendiamo per vero il paradosso che si cambia proprio nel momento in cui si capisce come si è fatti, possiamo dirlo con sicurezza: dopo “Assume Form” James Blake sarà un artista nuovo.

80/100

(Enrico Stradi)