GOAT GIRL, “Goat Girl” (Rough Trade, 2018)

Un esordio di 19 tracce per questa formazione inglese già da mesi sotto i riflettori dei media britannici, esce su un marchio che spesso è stato garanzia di qualità, Rough Trade, con la produzione di Dan Carey, già collaboratore di Kate Tempest e Franz Ferdinand, che opta per un intervento non invasivo e molti dei brani conservano lo spirito originario del live.
La ricetta è di quelle che non possono non colpire, quattro ragazze giovanissime da South London, un passato nella scena DIY, attitudine politica anarchica, senza però essere un gruppo militante e integralista.
Il primo paragone, indelebile, è quello con la PJ Harvey degli esordi, stessa irruenza e un’influenza che è presente in più tracce di questo album. Non è la sola, ed anche altre sono molto riconoscibili, sia nel cantato sia negli arrangiamenti.
In “Creep” e “Viper Fish” la voce guarda decisamente verso Lana Del Rey, “A Swamp’s Dog Tale” sembra provenire direttamente dalla discografia dei Fall, come la batteria di “Cracker Control”, che per fortuna si sviluppa in maniera differente, richiami al post-punk di Slits mentre il riff del ritornello ha il marchio di fabbrica dei Garbage, ma con un’attitudine più underground.
C’è poi quel tocco di cabaret / alternative in diversi episodi del disco, più Dresden Dolls che Kurt Weil, qualche armonizzazione tipicamente inglese, caratteristico di un gruppo come Chumbawamba, ormai dimenticati dai più per la loro produzione dei primi anni, influente e originale e ricordati solo per la loro hit.
Ascoltando questo esordio viene da paragonarlo ad un altro disco pubblicato diversi anni fa da Rough Trade, ovvero il debutto dei Libertines, simile per approccio diretto e poco mediato, e per una certa discontinuità nei brani, nel caso delle Goat Girl non tanto come qualità e songwriting quanto per stile e personalità. 19 brani si, ma con parecchi riempitivi, non tutti con l’approccio e l’energia del singolo “The Man” o di “Country Sleaze”, dove ritroviamo ancora la guida di PJ Harvey su qualcosa che ricorda anche le Breeders, pregevoli ma niente che non sarebbe potuto uscire 20 anni fa. Un album con la metà dei brani avrebbe forse sortito un effetto diverso, ovvero un disco senza cedimenti, ma probabilmente non avrebbe raggiunto i 22 minuti di durata. Questo apre uno spunto per una riflessione su musica e supporti, 19 canzoni in 41 minuti può essere normale per un disco punk, hardcore, parte di una tradizione, o una scelta di marketing per venire incontro all’ascolto contemporaneo e ai tempi dello streaming, così come accade per i brani hip hop o trap? Possono essere anche entrambe le cose o nessuna delle due, non è questa la critica ad un disco per una band promettente ma che deve ancora trovare una sua identità e che speriamo non venga bruciata troppo presto nella classica ricerca della “next big thing” dei media inglesi.

68/100

(Vincenzo Benforti)