ALDOUS HARDING, “Party” (4AD, 2017)

I’ve done my job. Now it’s everyone else’s thing”. È con queste parole che Aldous Harding presenta il suo ultimo album, il primo ad uscire per un’etichetta parecchio importante come la 4AD. Come a dire che il suo lavoro è finito, e che il disco ora è affare di chi lo ascolterà. Un avvertimento che suona quasi sinistro.

E già al primo ascolto ci sembra di capire più a fondo le parole dell’autrice. Perchè “Party” non è solo il nuovo disco di una cantautrice in sicura ascesa, ma soprattutto un’opera di profonda introspezione personale. Che diventa contagiosa, con quel suo modo di scavare a fondo delle emozioni umane e delle parole che le raccontano. “I’ve done my job. Now it’s everyone else’s thing”: come dicevamo prima, ora sono affari nostri. Interiorizzare i sentimenti, renderli musica e versi di canzone, donarli all’ascoltatore perché li interiorizzi a sua volta: “Party” funziona così, e in quanto tale, assomiglia molto ad un’opera di teatro sperimentale, nel quale il pubblico diventa protagonista, volente o nolente.

Di teatro e di teatralità infatti l’album ne è intriso: brano dopo brano ci accorgiamo che lavorando di sottrazione, togliendo le artefazioni folk a cui il genere ci ha abituato in favore di un suono quanto più scarno e costruito sulla ricorsività di melodie ripetute in progressione, e sfoderando un’espressività vocale che definire magnetica sarebbe riduttivo, ci accorgiamo che la Harding diventa l’interprete di maschere differenti, ognuna delle quali coincide con emozioni umane differenti.

La nostalgia di una persona amata che non c’è più, che è impossibile sostituire nella mente e nel cuore, come succede in “Blend”, in cui una drum-machine asciutta dà il tempo ad un giro di finger-printing dai toni oscuri e malinconici. Il desiderio di amati, che in “Imagining My Man” viene spersonalizzato e reso fuoco ardente con tinte vocali che si avvicinano ora al crooning e ora al lamento acuto. La paura e la responsabilità delle scelte da compiere, come in “Horizon”, dove solo il suono di un pianoforte ammorbidisce i contorni di una storia che parla della solitudine come scelta sofferta ma del tutto consapevole. Ma soprattutto l’amore, quello che strozza la voce, quello così forte e al tempo stesso così fragile, che Aldous Harding interpreta in “Party”, title-track e non a caso fulcro centrale dell’album.

Come il vaso di Pandora, “Party” è proprio il racconto di storie molto più grandi e complesse di un semplice disco folk lungo poco più di mezzora. Aldous Harding ha impiegato anni per racchiudere tutto quello che aveva da dirsi in una forma compressa, che poteva essere questo disco come un diario personale – non avrebbe fatto differenza, in quanto pura introspezione. Della differenza, cioè del fatto che tutta questa meravigliosa umanità sia accessibile, ne godiamo noi, ora. Apriamo il vaso.

80/100

(Enrico Stradi)