FAT WHITE FAMILY, “Songs for Our Mothers” (Without Consent, 2016)

FatWhiteMothersChi troppo vuole nulla stringe, dice un saggio proverbio morale che rimarca l’umiltà nell’accettare le proprie capacità e i propri limiti. In questo caso “Songs for Ours Mothers” compie il classico passo più lungo della gamba, così dopo il piacevolissimo “Champagne Holocaust” di due anni fa, il nuovo lavoro della band inglese non convince appieno.

Ma facciamo un passo indietro. I Fat White Family hanno guadagnato popolarità facendo dei live un’esperienza totalitaria, fisica, un approccio diretto con il proprio pubblico al quale dimostravano che essere sporchi, brutti e cattivi di questi tempi paga. In una sola parola: onestà. Poi il debutto effettivamente era un bel dischetto, niente di nuovo, per carità, ma riprendere la psichedelia dei sessanta e centrifugarla con dosi malate di folk, country e litanie sghembe ma gradevolissime è stata una bella mossa. Con il secondo disco appunto, o si cavalca l’onda, o si va in pasto agli squali. La band capitanata dal folle nordirlandese Lias Saoudi punta tutto sulla profondità e cerca di dimostrare che gli inferi sono realmente in superficie e quindi decide di mostrarci il vero calore delle fiamme dell’inferno. Ci riesce? Solo in parte. Ecco perché parlavo di mezzi, onestà e soprattutto canzoni.

I Cramps sono diventati immensi non certo perché Lux Interior mostrava nudità ovunque. I Cramps sono diventati i Cramps perché hanno dimostrato una correlazione fra quello che mettevano in mostra sul palco e quello che concretizzavano nella vita reale. David Lynch non è pazzo perché fa parlare dei topi in un grande salotto, Lynch è grande perché a quei topi ha offerto dei biscotti e ha spiegato loro che Inland Empire è un posto meraviglioso, dando così credibilità a quel delirio.
Quindi, tornando al disco dopo la divagazione musical-filosofica, quello che in “Whitest Boy on the Beach”, “Duce” e in “We must Learn to Rise” si inabissa in mantra di pece nera è solo un escamotage per rendere teatrale quello che dovrebbe scaturire dall’anima. Canzoni che non si attaccano in testa, se non in rari casi, (la filastrocca inacidita “Tinfoil Deathstar” e la Suicide-iana “Satisfied”) non possono bastare per far breccia nel cuore di chi crede che la musica abbia ancora il dovere di far evadere dalla realtà pur rappresentandola.

Insomma, il solito dilemma tra realtà e finzione e fra attitudine e parvenza ; si può parlare di pompini quando non si fanno nemmeno le seghe? Si può parlare di morti quando non si hanno santi in paradiso? Ci si può tagliare il petto quando non si riconosce il dolore?
Certo che si può, ma se ne pagano le ovvie conseguenze. Che in questo caso, dove si parla di musica per convincere qualcuno ad ascoltare o comperare un disco, sposterà solamente l’attenzione verso altri lidi, ancora più sporchi e insudiciati oppure verso altri più liquefatti ma oltremodo veritieri.

55/100

(Nicola Guerra)