YOUNG FATHERS, “White Men Are Black Men Too” (Big Data, 2015)

cover1Diceva il saggio che le parole sono importanti. Sono ancora giovani, e con due soli dischi all’attivo – uno, l’ultimo, è questo che recensiamo – ma questi Young Fathers devono essere parecchio d’accordo.

Tutta la loro produzione artistica ruota intorno a una profonda riflessione espressiva e comunicativa: il loro nome, scelto perchè ognuno dei tre componenti ha ereditato il proprio nome del padre, ma anche per dichiarare di sentirsi qualcosa di nuovo rispetto alle loro origini (uno è scozzese, uno ha orgini liberiane/ghanesi e l’altro è mezzo nigeriano/mezzo statunitense); il loro sound, praticamente impossibile da comprimere in una definizione esaustiva, ma che molti chiamano “alt-hip hop”; il loro primo disco, l’esordio che ha vinto il prestigioso Mercury Prize britannico, chiamato “Dead”.

Anche questo secondo disco, il cui titolo non passa di certo inosservato, “White Men Are Black Men Too”, non lascia nulla al caso e offre fin dal suo inizio una risposta a chi si è domandato cosa avessero pensato di fare gli Young Fathers dopo un meritato momento di popolarità: la prima traccia si chiama “Still Running”, ed è fondamentalmente una dichiarazione di intenti. Un trotto baldanzoso che racconta chiaramente quali siano le intenzioni dei tre: continuare a darci dentro.
Più cassa, più synth, più voce, più suono: è questo quello che si avverte in questa prima traccia, una sensazione che poi viene confermata nel resto del disco. Dal punto prettamente musicale gli Young Fathers continuano a fare a pezzetti i canoni e le definizioni di genere per poi frullarli tutti insieme in un suono che diventa sempre più peculiare e caratteristico, e che si allontana dai termini di paragone espressi fino ad ora (TV On The Radio tra i più citati). Forse in questo lavoro l’attenzione è più orientata al pop, alle melodie: nel numero totale delle canzoni, un buon numero è facilmente cantabile (cosa che non accadeva spesso per “Dead”, il primo disco). Stiamo parlando soprattutto di “Shame”, che se non è “il” pezzone dell’album, di sicuro è la più vendibile, con quella sua drum machine cicciona che esplode in un crescendo catartico di cori, cacofonie elettroniche e bassi saturi. Ma non è l’unico episodio: “Sirens” e “Nest” stupiscono per come i tre riescano a un figurone anche andando piano, confezionando due pezzi catartici e grandiosi anche senza esplosioni sonore.
Certo, loro sono un trio nato hip hop, e non è che abbiamo abbandonato le loro venature black: “Old Rock n Roll”, “Dare Me”, “Rain Or Shine”, e “Liberated” sono lì a testimoniarlo, mescolando lyrics politici, rappato classico, e soluzioni di volta in volta diverse, tutte accomunate da quel modo di mettere insieme innumerevoli suoni e di saturarli fino all’implo- o esplo-sione del pezzo. Qua e là, qui ma anche nel resto del disco, si sente di tutto: campanellini, synth asciutti, batterie elettriche, cassa che batte a ritmo cardiaco, un organo, tastiere distorte, un basso distorto, percussioni tribali. “Get Started” è l’esempio perfetto, con la sua coda cacofonica e così satura da far chiedere pietà ai timpani.

In definitiva, il concetto è chiaro: gli Young Fathers hanno fatto un lavorone. Il loro secondo disco dichiara con gran forza le loro doti artistiche: se le parole sono importanti, non abbiamo paura di dire che questi tre fanno davvero sul serio. Still running.


80/100

Enrico Stradi