PETITE NOIR, “La Vie Est Belle” (Domino, 2015)

pn2Avevamo già introdotto Petite Noir ad inizio anno, quando fece uscire il suo primo EP “The King Of Anxiety”, un esordio che sorprendeva parecchio per le sonorità e la scelta di nuove soluzioni musicali. Per i distratti però, ecco una sintetica occasione di recupero: Petite Noir è Yannick Illunga, giovanissimo artista africano, metà angolano, metà congolese, sudafricano di adozione, londinese di cuore, dall’autostima talmente solida che è lui stesso a coniare con “noir-wave” la definizione della sua produzione musicale.

Una definizione a priori che cominciamo finalmente a capire anche noi, dopo aver ascoltato il primo EP ma soprattutto questo suo album d’esordio, “La Vie Est Belle”: la noir-wave è l’ibridazione dei canoni musicali della new wave con atmosfere più vicine alle ritmicità africane. Una fusione calda, tra pop e afrobeat, tra i tastieroni anniottanta e le percussioni poliritmiche della tradizione africane, tra Martin Gore e Fela Kuti. Un intento artistico che appare velleitario solo se poi non provate l’ascolto.

“La Vie Est Belle” infatti è un album che esprime con forza il talento di Petite Noir, capace di tenere insieme due orizzonti musicali diametralmente distanti per darne una nuova lettura complessiva. Ogni pezzo che compone l’album è infatti l’esempio di una riuscita commistione tra due poli respingenti che man mano si ammorbidiscono l’un l’altro. E così capita di sentire l’eco dei Duran Duran emergere dal pavimento di percussioni asciugate con l’elettronica in “Best”. Oppure sembra di sentire la chitarra dei Cure in “Freedom”, prima del crescendo di rimbalzi tribali che oroseguono per tutto il pezzo. E non sembra un pezzo dei Tears For Fears cantato in un quartiere africano di Parigi questa profonda “La Vie Est Belle”, che dà il nome all’album?

Quella di Petite Noir è insomma una scelta artistica ambiziosa, così com’è ambizioso questo suo primo disco, che a suo modo è già il suo personale manifesto. E non devono far insospettire la sfilza di nomi e paragoni fino ad ora espressi, perchè l’artista africano appare già da ora capace di proporre un suo sound unico e personale, senza mai cedere alla semplice imitazione. I momenti più riusciti del disco – su tutti, “Just Breath” e “Chess” – parlano chiaro d’altronde: ambizione o pretenziosità, stiamo assistendo alla nascita di qualcosa di molto buono.


70/100

Enrico Stradi