THE PAINS OF BEING PURE AT HEART, “Days Of Abandon” (Yebo Music, 2014)

PrintDell’importanza del terzo disco, del terzo disco come il disco della maturazione di una band, del terzo disco come segno della fine degli esordi: su tutta questa roba si discute da chissà quanto tempo, e lo si farà anche ora nel recensire l’ultimo album, il terzo appunto, dei The Pains Of Being Pure At Heart, “Days Of Abandon”.

È passato tanto tempo dal 2009, quando il primo disco omonimo fece piangere di gioia nostalgici dello shoegaze di Jesus And Mary Chain, Cure e Slowdive: nel frattempo quel modo di suonare è diventato di molti, e i Pains non sono più i primi sulla lista. A dirla tutta, a scalzarli dalle prime dorate posizioni dell’hype sono stati gli stessi gigantoni ai quali si ispiravano: ora per esempio gli Slowdive si sono messi a suonare di nuovo, pazzesco ma è così.

E sembra paradossalmente essere passato ancora più tempo dal 2011, quando il loro secondo disco “Belong” convinceva praticamente tutti: lì dentro le canzoni erano bellissime e dolcissime, e le si apprezzavano ancora di più perchè i suoni sullo sfondo erano ancora più distorti e appuntiti di prima. “Belong” era proprio la prova che i Pains erano bravi sul serio e il primo disco non era un proverbiale fortunato primo episodio da principianti: le cose non potevano che decollare da lì in poi.

Invece deve essere successo qualcosa di diverso, perchè questo “Days Of Abandon” già dai primi ascolti suona molto più levigato e pulito dei dischi di prima.
Sappiamo che della band originale sono rimasti solo in due, Kip Berman e Kurt Feldman, ma oltre a questo i Pains sembrano aver cambiato modo di fare le canzoni, e a dircelo sono pezzi come “Art Smock”, “Simple and Sure”, “Life After Life” e soprattutto “The Asp at My Chest”, che cercano di mescolare tutti insieme le somiglianze agli Smiths, i nuovi tentativi acustici, i piccoli esperimenti con cose che fino ad ora non si erano mai sentite tipo i fiati, che ingrassano e inciccioniscono in modo a dir poco sorprendente il suono del disco.
Forse per non destabilizzarci troppo, c’è qualche pezzo palliativo: “Coral and Cold” e “Until The Sun Explodes” suonano alla vecchia maniera, con le chitarre che tornano ad essere un po’ più sporche, ruvide, distorte: per quello che mi riguarda, mi consolano un po’. Ma ci metto poco a realizzare che si tratta comunque di omeopatia, o se volete essere più realistici forse non sono altro che specchietti per le allodole – e io sono l’allodola.

“Days Of Abandon” è insomma un disco che come da titolo arriva per lasciarsi alle spalle la storia di quello che c’era prima: i nostalgici impazziti per gli anniottanta, lo shoegaze, i Cure, gli Slowdive, i Jesus And Mary Chain, le canzoni al caramello e contemporaneamente appuntite, le chitarre distorte, quelli come me che ascoltavano “Young Adult Friction”, “Belong” o “Heart in your Heartbreak” col volume molto molto alto.

I The Pains Of Being Pure At Heart hanno deciso di cominciare a suonare in un altro modo, molto più pop, morbido, meno appuntito. Forse sono diventati grandi e saggi e noi no, oppure adulti e imbruttiti e noi no: viene proprio da chiederselo.



73/100

Enrico Stradi