HOLOGRAMS, “Forever” (Captured Tracks, 2013)

CT180-holograms-Cover_1400-720x719Nel Nord Europa l’orologio del tempo è tornato indietro, sono di nuovo gli anni ottanta. L’atmosfera cupa e dolce-amara è nel DNA dei paesi nordici, le ore di sole sono poche e la noia è molta. Il tedio, qualche anno fa, consumava anche gli Holograms, quattro musicisti di Stoccolma, impiegati – quasi sempre al verde – di una fabbrica. Poi venne il post-punk e tutto cambiò o quasi. A un anno dal disco d’esordio omonimo arriva “Forever”, pubblicato sempre su Captured Tracks, etichetta dream pop oriented, distante dalle sonorità del gruppo.

Questo secondo album muove i passi – come aveva fatto sostanzialmente il debutto – da Killing Joke e Joy Division. Si nota subito una certa somiglianza tra la voce di Andreas Lagerström e quella di Jaz Coleman (“A Sacred State”, “A blaze on the Hillside”), non può sfuggire. Voluta o meno, non disorienta più di tanto l’ascoltatore.

La struttura dei vari brani si sviluppa a strati: alla base vi è un impianto monolitico della sezione ritmica e in superficie si inseriscono le parti di synth, che danno una parvenza di ariosità al tutto (“Meditations”, “Ättestupa”). La chitarra – nelle mani di Anton Spetze – affila e lavora di ruvidezza (“Fleshbone”), la batteria, dal suono potente e compatto, è il perno solido e inossidabile delle trame sonore. Le varie componenti strumentali si intrecciano volte a creare un labirinto inestricabile di chiaro-scuri, tra l’epicità abbagliante di synth e il decadentismo claustrofobico di ritmi serrati (“Rush”).

Gli amanti di sonorità post-punk/synth pop troveranno un disco da ascoltare e amare, gli altri, con tutta la buona volontà, faranno fatica ad apprezzare un’opera fortemente orientata verso un determinato pubblico. Gli Holograms, non curanti delle mode, (ri)suonano la musica – che hanno presumibilmente amato – con passione e violenza. Manca l’urgenza creativa, peccato.

67/100

(Monica Mazzoli)

1 ottobre 2013