BEACH HOUSE, Teen Dream (Sub Pop, 2010)

Il duo di Baltimora ci ha preso gusto. Ogni due anni una raccolta di fatali sottofondi notturni che sembrano riecheggiare da chissà quale dimensione parallela sotterranea. Prima l’omonimo, poi nel 2008 lo splendido “Devotion” della definitiva consacrazione. Un suono che è diventato un marchio di fabbrica. Il timbro penetrante e avvolgente di Victoria Legrand e i caldi giri di chitarra di Alex Scally tra basi gelide e spettrali organi dal fascino gotico. Quando si ascoltano i Beach House torna in mente la domanda “Chi ha ucciso Laura Palmer?”, scorci metropolitani finto-rassicuranti alla Mulholland Drive, desolanti strade perdute, flashback spazio-temporali alla Inland Empire. Come se David Lynch avesse veramente chiamato a sé i Portishead chiedendo di rivisitare a modo loro dei classici anni ’50. Il fascino vintage e bluesy della voce della franco-americana non si perde nemmeno in questo “Teen Dream” che segna il loro approdo alla Sub Pop. Già a partire dal titolo, l’album, realizzato al fianco di Chris Coady (Grizzly Bear, Tv On The Radio, Yeah Yeah Yeahs) lascerebbe prefigurare una deviazione ottimista nei funerei toni della casa in spiaggia. Non che quei tratti onirici non fossero mai stati presenti o prevalenti nei suggestivi panorami dei due, nel primo come nel secondo album. Ai colori evanescenti e sfocati degli arrangiamenti si sono però sempre accompagnati continui e raggelanti cambi di atmosfera dettati da tastiere e voci.

Siamo dunque davanti all’esperimento pop dei Beach House? Ma neanche a parlarne. “Zebra”, la splendida “Silver Soul” e “Walk In The Park” sembrano ancora sfumare dalle nebbiose lande periferiche di “Devotion” con l’incredibile voce di Victoria che non potrebbe non sconvolgere gli animi più freddi e imperturbabili. Niente ottimismo forzato insomma, sebbene con determinati brani, quali la già nota “Used To Be”, i due cedano in alcuni passaggi a un istinto folk più schietto. Con ritmiche quasi in levare per i loro standard da inguaribili lentoni. Certo, la stessa “Norway”, singolo di lancio, si spinge in un dream-pop sempre meno da incubo nel fotografare l’atmosfera da road-trip norvegese che ha ispirato il brano. Una spiritualità terrena e sognante che segue l’ideale tracciato celeste seguito da Cocteau Twins e Slowdive, in “10 Mile Stereo” come in “Take Care”. Riverberi ed echi così accentuati sono una parziale novità. In “Real Love” sembrerebbero avventurarsi in modelli di forma-canzone più convenzionali. In quella che darebbe l’idea della tipica ballad al piano con cui Victoria prova a sfidare Cat Power nella conquista del trono di icona alcolizzata del nuovo cantautorato nord-americano. Giusto per dimostrare come il suo non sia assolutamente un timbro monotono o monocorde. Alcune canzoni sembrano già sentite ricordando la peculiare (e inconfondibile) formula del duo, si pensi a “Lover Of Mine” o “Better Times”. Nulla di grave o condannabile. Al terzo album ascoltando i suoi acuti e gli eleganti e sinuosi ricami di Scally non si può che pensare a loro e a nessun altro.

Traguardo tutt’altro che scontato in questo inizio secolo di revival e copia/incolla.
Insomma, l’unica via di fuga è ancora una volta quella di annichilirsi in queste nuove dieci canzoni perdute marchiate Beach House ripudiando ogni tentazione terrena.

When you’re an artist, you pick up on certain things that are in the air (David Lynch)

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