Back To The Future Vol. 8 – I Vines e il Verona dell’84-’85

Non è facile capire che tipo di cultura musicale sia, quella australiana, e in primo luogo se esista o meno. Dunque non è semplice capire il perché i Vines, che quella (non)-cultura rappresentano, abbiano goduto di uno splendore subitaneo sull’affacciarsi della scorsa decade per poi venire subito affossati, forse giustamente ma a mio avviso in maniera frettolosa. A distanza di tempo i primi due dischi dei Vines sembrano infatti esercitare ancora un fascino granitico, come i vincitori di una gara della vita poi eterni perdenti, come il Verona dell’84-‘85, quello di Garella, Di Gennaro e Galderisi, che vinse un assurdo scudetto tornando immediatamente nell’anonimato l’anno successivo, in punta di piedi, spegnendo i riflettori su quello stoico collettivo anche per la pessima figura dei giocatori “veronesi” dati alla Nazionale di Messico ’86, smazzolata come poche e che fece perdere anche un po’ di alone di mito a quei giocatori gagliardi solo un paio di anni prima.

I Vines, la prima band australiana che tornò sulla copertina del Rolling Stones dopo i Men At Work, sono uno strano gruppo che metteva d’accordo in molti per via di quelle melodie beatlesiane sommerse da tonnellate di chitarre sporche nirvanesche, con passaggi psichedelici e attitudini marcate al brit-pop più energico alla Supergrass. In realtà il primo disco, il pluriacclamato “Highly Evolved” (2002), fu fatto salire sul carro del nuovo corso fashion-stradaiolo alla Strokes per i brani come la title-track o “Get Free”, per l’evidente uso tanto dei coretti catchy quanto quello dei ritornelli urlati dal profondo dello stomaco.

E quello fu forse una chiave della mancanza di interesse che suscitò il successivo “Winning Days” (2004), un album che svelò che i Vines non erano stilosi come i newyorkesi bensì molto più complessi (sol che volessero) e stratificati. Delusione tra chi voleva veicolare a tutti i costi la roba cool del momento.

Ma – a distanza di tempo – quel “Winning Days” nasconde in sé un bel po’ di canzoni sorprendenti che fanno sentire il loro sapore nonostante di acqua sotto i ponti ne sia passata. E ciò è strano, sol che si pensi che a volte si ha paura ad andare alla riscoperta di gruppi amati alla follia ma che non si vogliono svegliare per timore di rimanere delusi, mentre i Vines sono quell’amore forse mai sbocciato del tutto ma su cui ci si ritorna sopra sempre con un piccolo sorriso. In particolare ci sono un paio di pezzi che personalmente non smetterei mai di riascoltare, qualsiasi annata sia e ora anche in questo 2010 che apre nuovi orizzonti chiudendone inesorabilmente dei vecchi.

Tv Pro” è la prima, una nenia onirica vs. un urlo totalizzante, una canzone che ti ammalia dolcemente e quanto ti ha conquistato ti dà un cazzotto per farti svegliare, per scuoterti e farti capire che anche quello che può sembrare dolce può farti fottutamente incazzare.

Il secondo estratto da “Winning Days” da onorare è quella track 5, “Evil Town”, che volteggia sulla sottile linea degli Alice In Chains seppure in maniera più pulita, con il medesimo risultato beatamente incazzoso, peraltro.

Il rivangare sui Vines si ferma qui, perché sui successivi “Vision Valley” (2006) e “Melodia” (2008) si sono davvero spente le luci di scena, almeno per quanto mi riguarda. Ma, dato che nel 2010 è annunciata una nuova prova degli australiani, non si sa mai: anche un Verona qualsiasi può sempre tornare a vincere uno scudetto.

 

(Paolo Bardelli)