DEPECHE MODE, Sounds Of The Universe (Mute, 2009)

Non sono certamente i Depeche Mode la band da cui pretendere ancora qualcosa. Alle soglie del secondo decennio del terzo millennio, dopo quasi trent’anni di carriera. E un’importanza inestimabile nel ridefinire in chiave sintetica le coordinate del pop dagli anni ’80 in poi. Però c’è da dire che, nonostante li si fosse dati giustamente per morti dopo lo stanco episodio di “Exciter”, “Playing The Angel” si era distinto a sorpresa come uno dei prodotti più validi del 2005. In un giusto equilibrio che ha reso il Depeche-sound più corposo e avvolgente grazie a suggestioni sonore più care alla moderna electro-dance. E soprattutto cinque-sei brani imperdibili e il lavoro di un produttore molto bravo in questo tipo di operazioni (“Think Tank” dei Blur, “Some Cities” dei Doves). Stesso produttore, Ben Hillier, ma risultati molto diversi nel dodicesimo capitolo della saga più longeva del synth-pop, “Sounds Of The Universe”. Titolo altisonante, anche troppo, che manda un messaggio fin troppo chiaro sui rimandi retro-futuristi dell’elettronica degli esordi che il trio aveva sdoganato due decenni fa.

Basta l’introduttiva “In Chains”, quasi proverbiale nel rappresentare il loro sound, e l’immediatezza di un singolo così dannatamente Depeche Mode quale “Wrong” , per rendersi di conto di come il suono sia tornato scarno e minimale dopo gli intenti da blasfemi rumoristi in salsa electro-pop del precedente lavoro. Sembra scritta nel 1986 insomma, ma rende indiscutibilmente bene. Tra alti e bassi la prolifica vena di Gore riesce sempre a cavar fuori qualche sprazzo degno del loro nome. In parte “Peace” e “Little Soul”, nonostante il gusto retrò finisca quasi per fare malinconia lanciandoci impietosamente in una Berlino di fine anni ’70 che oggi ha poco senso. “Fragile Tension” e “In Sympathy” dimostrano invece come tutte le band pop contemporanee che usino dei synth debbano dire grazie ai Depeche Mode. Nulla di eclatante, ma per lo meno non si cade di stile. Malgrado i sentori di un certo compiaciuto manierismo siano tutt’altro che scongiurati.

Quando alla scrittura ci si mette invece Gahan, con lo stesso inguaribile narcisismo ai limiti del patologico che l’ha reso un’icona dei nostri tempi, le cose vanno meno bene. “Hole To Feed” e “Come Back” suonano di già sentito senza lasciare il segno. In “Miles Away” emerge qualche trovata compositiva più coraggiosa negli arrangiamenti. Almeno fino al ritornello alla sua maniera tracciato dagli inconfondibili synth di Andy Fletcher.

Tra riempitivi di classe ed eleganti brani che però onestamente sembrano delle b-side al cospetto dei classici, è veramente difficile arrivare alla fine dei sessanta minuti. Dispiace dirlo. Spegnere lo stereo prima del tempo sarebbe tuttavia un peccato. Perché ci si perderebbe il fioco barlume “Perfect” che riesce se pur a fatica a esprimere qualcosa di emotivamente intenso nella freddezza e nel distacco troppo forzato e autoreferenziale che aleggia nei tredici brani.

Freddezza che paradossalmente va in controtendenza con un successo sempre più planetario. Sarà pure un effetto collaterale di questi tempi così pressappochisti e privi di logica il fatto che oggi vendano e stravendano senza le canzoni immortali degli anni ’80. Né sarà una loro scelta, vista una proposta musicale recente tutt’altro che incline alla prostituzione senile, il fatto che riempiano location quali l’Olimpico di Roma come mai nella loro storia senza promuovere album del calibro di “Speak & Spell”, “Black Celebration” o “Violator”. Con scene aberranti quali il popopo d’invocazione a “Just Can’t Get Enough” scambiato impietosamente per il popopo calcistico.

Ma obiettivamente, se i tre cyborg-chic dell’Essex volessero romanticamente lanciare dei messaggi all’universo scelto come soggetto dell’album, includerebbero una di queste canzoni?
Sicuramente no. Ma le platee urlanti alle canotte di Gahan sono una buona consolazione, sul pianeta Terra.

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