THE PAINS OF BEING PURE AT HEART, The Pains Of Being Pure At Heart (Slumberland / Fortuna pop, 2009)

Tra i nomi più citati dell’underground indie pop americano degli ultimi mesi occorre annoverare senz’altro i The Pains Of Being Pure At Heart, quartetto newyorchese che proprio in questi giorni è venuto allo scoperto con un album accolto più che benevolmente dalla critica di settore (qualche giorno fa è giunto l’agognato bollino di qualità di Pitchfork, quindi il gioco pare ormai fatto). L’album si pone a compimento di una lunga coda di pubblicazioni stilisticamente molto vicine, apparse tutte negli ultimi mesi: si va dall’omonimo esordio del terzetto Vivian Girls per In The Red, all’esordio (“Alight Of Night”, sempre per Slumberland) dei Crystal Stilts fino ad una compilazione di singoli sparpagliati ed ep dei Manhattan Love Suicides, a cui si può aggiungere anche l’album che i Depeciation Guild hanno messo gratuitamente a disposizione sul loro myspace (consigliato). Tutti gruppi americani (per lo più di New York e dintorni, se si escludono i Manhattan Love Suicides che invece provengono da Leeds), accomunati da un interesse per lo più generico (e declinato da angolature sensibilmente diverse, ma non troppo) per le sonorità di matrice Jesus And Mary Chain/ My Bloody Valentine.

I TPOBPAH (perdonateci se non abbiamo voglia di riportare per intero la chilometrica denominazione) tendono a non fare eccezione, producendosi in un forbito (e a tratti sin troppo puntiglioso) commentario musicale di ciò che è stato realizzato dal rock indipendente inglese da “Psychocandy” dei Jesus And Mary Chain (1985) fino, a grandi linee, alla pubblicazione del primo album dei Suede (1992), praticamente a cavallo tra gli ultimi spasimi di un’epopea new wave ormai infiacchita e i primi vagiti commerciali del nascente brit pop. In particolare le radici del gruppo paiono affondare in una storica compilation (attualmente oggetto di un culto persino sproporzionato rispetto al suo effettivo peso storico) allegata al settimanale NME, chiamata C86, (da cui il non nome del non-movimento musicale che da essa prese le mosse), nella quale figuravano persino gli stessi Jesus And Mary Chain e dei giovani (e ancora ignari) Primal Scream, oltre a Pastels, Shop Assistants e Wedding Present, tutti gruppi che, a ben sentire, hanno esercitato un’influenza massiccia nella definizione del suono dei TPOBPAH. A questo bisogna poi sommare i rarissimi sette pollici di un piccola etichetta, la Sarah Records di Bristol, che a partire dal 1987 ha di fatto plasmato il concetto di indie pop attraverso le imprese musicali di piccoli eroi minori (ai limiti della più trasparente inesistenza) quali Field Mice, Heavenly e Blueboy. Volendo si può anche citare una misconosciuta formazione newyorchese dei primi anni Novanta, i Black Tamburine, la cui smilza produzione (una decina di singolini) è stata raccolta nel 2002 (con il titolo “Complete Recordings”) da quella stessa Slumberland che oggi scommette sui TPOBPAH.

Ricostruito un po’ a fatica l’albero genealogico delle parentele e delle filiazioni più o meno dirette (cosa inevitabile per un band “metamusicale” fino all’ultimo accordo come i TPOBPAH), si può proseguire nell’analisi osservando come il disco suoni a conti fatti esattamente nella maniera in cui uno se lo aspetterebbe, senza particolari sorprese. Baluginii melodici appena accennati, letargiche chitarre che si increspano dolcemente in tenui jingle-jangle, un suono liquido, pieno, come dire, di participi presenti: riverberante, cullante, fantasticante, indolente, sbadigliante, sfarfallante, balbettante, dondolante e così via. Se una qualità contraddistingue in qualche modo l’operato del gruppo essa risiede senz’altro nella capacità di proiettare l’ologramma sbiadito di un immaginario adolescenziale da tardi anni Ottanta più verosimile dell’originale: un agglomerato indistinto di bibliotecarie filiformi con cerchietto rosso, frangetta e una t-shirt gualcita degli Smiths che il sabato alzano qualche spicciolo lavorando in una pista di pattinaggio e che, in virtù di un sortilegio segreto che ha dell’inquietante, non invecchieranno mai, il vuoto piacevolmente desolante di domeniche pomeriggio dal profilo uggioso e imbronciato, la miopia deformante di pupille arrossate, timidi occhiali dalla montatura spessa per nasconderle, poca voglia di uscire, una tazza di tè con troppo zucchero, un cielo autunnale e indeciso che occhieggia dai vetri appannati di una piccola finestra, odore di foglie bagnate.

In canzoni come “Everything With You” o “Come Saturday”, avvolte in un maglione fibroso e infeltrito di distorsioni e riverberi di un paio di taglie più grandi fino a diventare quasi una coperta o un mantello in cui venire inghiottiti e sparire per sempre, si è sfiorati da questo tipo di visioni: i confini del mondo coincidono con il perimetro ristretto di una cameretta che è allo stesso tempo regno impenetrabile, mausoleo e prigione narcisisticamente autoinflitta. Tutto molto romantico e mitizzante, oltre che ben suonato e sempre molto orecchiabile, eppure l’impressione che il gioco non riesca a spingersi oltre un esercizio di perfetto mimetismo rimane piuttosto forte. Senza contare poi l’oggettiva difficoltà di immaginare una possibile linea di sviluppo futuro per un progetto con queste caratteristiche. Ma forse è già un modo improprio di approcciarsi a questa musica, richiusa sull’irripetibilità di un “adesso” che non ammette futuro ma che, a ben vedere, è passato da più di vent’anni.

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