SMASHING PUMPKINS, Zeitgeist (Reprise / Warner, 2007)

Dopo quasi un mese di ascolto ricorre ancora nella mente il celebro epiteto fantozziano riservato a “La corazzata Potemkin”. Non che ci si aspettasse chissà cosa dal forzato ritorno sulla scena degli Smashing Pumpkins, o meglio di quello che è ormai diventato un acronimo di Billy Corgan, ma un fiasco di tale portata, e una volta tanto, condiviso da chiunque ne parli, non era così prevedibile.
Un acronimo oltre che un giocattolo in mano al dispotico leader di quella formazione di Chicago che – è doveroso ammettere pur col senno di poi, a dispetto dei detrattori – ha segnato le difficili e contraddittorie sorti dell’agonizzante rock degli anni 90. Il giocattolo si era rotto con quel salutare e dignitoso tour d’addio quando Corgan, dopo i due controversi “Machina” del 2000, aveva deciso di gettare simbolicamente la spugna contro l’involuzione musicale della mtv-generation.

Perché ricostruirlo? La sua crisi d’identità – e di visibilità – era già palese dopo il deludente capitolo-Zwan e il coraggioso esordio solista in cui aveva provato senza infamia né lode a dare la sua chiave di lettura all’inflazionato revival anni Ottanta degli ultimi anni. Sarà pure incazzato nero con il mondo, come rivelano dichiarazioni alla stampa, testi e la stessa copertina, sarà pure tornato alla base lo storico batterista Jimmy Chamberlain insieme a due new-entry semisconosciute (Jeff Schroeder alla chitarra e Ginger Reyes al basso), ma “Zeitgeist” affonda ineluttabile insieme alla Statua della Libertà dell’apocalittica copertina. Senza neanche però un barlume di speranza come l’accecante luce di sfondo che si staglia all’orizzonte nell’illustrazione di Shepard Feiray.

Sarebbe inutile persino una carrellata dettagliata dei brani.
Il singolo apripista “Tarantula”, anacronistico rigurgito rock registrato alla maniera di quelle band emo che spopolano su mtv con video improponibili, non era certamente un buon presagio. La batteria c’è, Chamberlain picchia duro, elargisce rullate alla sua maniera, cambi di tempo, stop’n’go. Ma è maniera la parola chiave. E dalla maniera emerge il nulla.

Le melodie si trascinano pesanti e monotone tra chitarroni che lambiscono lo stoner (un genere che ormai ha stancato un po’ tutti, anche gli stessi capofila come i QOTSA) e psichedelia sciorinata tra ritornelli e peculiari distorsioni in un clima nu-metal poco consono alle zucche.
“Doomsday Clock”, “7 Shades Of Black”, “That’s The Way” sembrano brani tutti uguali.
La produzione che si avvale, non a caso, della collaborazione di Thomas Baker (un curriculum che va dai Queen ai Darkness) e Terry Date (Deftones, Pantera, Dream Theater, Limp Bizkit) oltre a dare un tono plastificato e monocorde deturpa il sound degli Smashing Pumpkins di quella leggerezza agrodolce che non è mai mancata neanche nelle fasi meno difendibili della loro carriera.
“Bleeding The Orchid”, una sorta di rivisitazione corganiana degli Alice In Chains, prova a dare un lampo di dignità, restando però mestamente isolata. La sostanza non cambia, passando da “Starz”, cafonesco momento arena rock pericolosamente glam (nel senso meno onorevole e anni 70 del termine) all’ostinata lungaggine di “United States” che potrebbe offrire un interessante parallelismo tra la manifesta crisi socio-politica che attraversa gli Stati Uniti del nuovo decennio e la crisi di idee degli Smashing Pumpkins. Arrivare alla fine dell’album è davvero arduo tra ballad scarto degli scarti (“Neverlost”, “Bring The Light”), granitici quanto pleonastici scorci hard-rock vecchio stampo e viscerali rockettini in cui la voce e la chitarra di Corgan non graffiano più come un tempo. Nulla da aggiungere. Resta da capire solo il senso di tutto ciò. Se tutto questo ha veramente un senso.
Forse voleva fare un disco consapevolmente e deliberatamente brutto per chissà quale intento provocatorio oppure – con un giro di parole stupido ma efficace – di sale in zucca all’ormai quarantenne leader degli Smashing Pumpkins ne è rimasto davvero poco.

L’epiteto ricorre, si diceva sopra. Con la differenza che il leggendario lungometraggio di Eizenstein, al di là dell’ironia di Paolo Villaggio, resiste a ormai ottantadue anni di storia, “Zeitgeist” rifletterà letteralmente lo spirito del tempo, e dunque – si spera – la tipica fugacità dei nostri tempi finendo presto nel dimenticatoio.
Se non si fosse capito tutte queste parole sono soltanto un modo gentile ed educato per dire che questo “Zeitgeist” è una cagata pazzesca.

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