TRAVIS, The Boy With No Name (Indipendiente / Epic, 2007)

Dopo il mediocre “12 memories” i Travis hanno pensato bene di darsi una pausa di riflessione e, dopo quattro lunghi anni, in cui parallelamente l’indie-revival ha definitivamente preso il sopravvento sulla scena britannica, il silenzio creativo è finalmente rotto con l’arrivo del quinto decisivo album in studio, “The boy with no name”. Decisivo per considerare il precedente flop come un episodio isolato – gli album precedenti, al di là delle accuse di “commercializzazione” si erano sempre mantenuti su livelli più che buoni – o come l’inizio di un’ineluttabile crisi creativa.

I buoni presentimenti non mancano. Non tanto la durata del break che non sempre garantisce buoni risultati, quanto piuttosto il ritorno di Nigel Godrich che aveva prodotto e mixato i due album più riusciti, “The invisibile band” e soprattutto quello che resta il disco-top, ossia “The man who”. In parte smentite, invece, le voci di una collaborazione attiva con Mike Hedges e Brian Eno. A differenza di quanto preannunciato dai gossip quest’ultimo avrebbe semplicemente dato dei consigli informali per ridare coraggio a una band che sembrava aver smarrito la strada, una band improvvisamente insicura dei propri mezzi, affondata nel vero senso del termine nella malinconia mista a critica a sfondo politico di “12 memories”.

Questo quinto disco, insomma, anche per l’arrivo del “boy with no name” per il problematico cantante scozzese (pare che non gli siano bastate quattro settimane per la fatidica scelta del nome del figlio), lascia intravedere la luce alla fine del tunnel. Basta “Closer”, singolo e traccia d’apertura, per ribadire l’indiscussa capacità di Dunlop e Healy di disegnare semplici ballate in salsa brit, lievi e agrodolci con ritornello catchy ma con eleganza. Non è l’unico brano alla Travis, quelli classici dei primi tre dischi che non si creavano troppi problemi nel tirar fuori ballate semplici ed efficaci per piano e chitarra. La sognante “Battleships” e soprattutto “My eyes” in cui Godrich – inspiegabilmente tenuto lontano dal mixer – si fa da parte. E si sente. Niente di eclatante, tutto in linea, né più né meno, coi loro standard compositivi.

Dovendo scegliere la migliore, emerge su tutte la traccia conclusiva, “Amsterdam”, rievocativa e inevitabilmente beatlesiana (quanto la ghost track messa in coda), essenziale quanto efficace. L’effetto è invece più spiazzante quando si cerca di virare verso scenari dai toni più folk, dall’armonica di “Colder” in cui si avvertono delle dilatazioni alla Radiohead, alla filastrocca a bassa fedeltà di “Out in space” passando per la rovente “Eyes wide open” che rievoca certe intuizioni di Neil Young nel controtempo della batteria in cui si insinuano chitarre sporche e graffianti.

O nel liberatorio sfogo da Pulp in salsa estivo-edulcorata di “Selfish Jean” (con tanto di rimando nella batteria a “Lust for life”), coinvolgente rigurgito solare dagli esiti tutt’altro che negativi. Anche se è doveroso sottolineare come certe aperture vocali finiscano per rievocare gli U2 finendo, in un circolo virtuoso di influenze e affinità, per ricordare certe fasi dei Coldplay. Soprattutto nella crepuscolare “Big chair”, coagulata però in toni decisamente Radiohead nell’incessante base ritmica, tagliente e metropolitana. Il piano è arricchito ad-hoc, con le inconfondibili trovate dell’iper-produzione di Godrich nel rendere il suono profondo e avvolgente. Al cui trattamento non sfugge neanche la voce, appassionata e rassegnata, ma soprattutto penetrante come raramente in passato. Uno dei brani migliori della raccolta, che se la gioca con l’altro brano in cui si sente in tutto e per tutto la mano del produttore. Godrich reimposta il suono del quartetto di Glasgow a suggestioni accomunabili al bellissimo “Sea change” di Beck più che ai classici acustici dei Radiohead lavorando in maniera maniacale sugli arpeggi ipnotici e riecheggianti guidati da una batteria secca da sembrare campionata, in un tripudio di inserti orchestrali e minimali effetti futuristici di sfondo.

Niente di eclatante, come detto sopra, anche perché in album del genere, pop senza troppe ambizioni innovative, mancano i potenziali classici alla “Sing”, alla “Side” o, sarebbe volere troppo, alla “Why does it always rain on me”, ma le buone canzoni non mancano. Potranno risultare poco affini alle band che NME lancia con cadenza quotidiana per poi dimenticarsene dopo i classici quindici minuti di celebrità warholiani, ma a noi e ai Travis, in fondo, va bene così. In periodi di tale magra…

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