JOHNNY CASH, American V – A Hundred Highways (American / Universal, 2006)

Forse possiamo aver perso l’uomo, ma non perderemo mai quella voce. Johnny Cash continua a vivere. Lo fa nei solchi dei suoi dischi. Dove possiamo sentire quelle corde vocali straziate da una vita vissuta oltre i limiti. Dove possiamo addirittura toccare le sue mille rughe, i suoi capelli ormai fieramente bianchissimi, quelle mani così calme e quegli occhi che hanno visto molto più di quello che lasciano intendere. Ci piace ricordarlo così, Johnny Cash. Fiero della sua vita e della sua musica. Intento a cantarne un’altra, di buttare la sua anima sul pentagramma una volta ancora. Di lasciare una traccia di passione sulle canzoni di altri che forse mai hanno pensato ad una sua interpretazione. Johnny Cash. Un uomo così religioso e talmente convinto della divina redenzione da spingere anche noi atei miscredenti del ventunesimo secolo a credere che, forse, qualcosa lassù effettivamente c’è. E tutto grazie ad un pugno di canzoni e un pugno di dischi – questi suoi ultimi – che sono tra i migliori della sua carriera. Ironia della sorte, dopo cinquant’anni di carriera, tutti si innamorano delle sue ultime prove. Dove le canzoni, tra l’altro, non erano nemmeno sue. Rick Rubin ha fatto il miracolo. Ma è stato grazie a Cash, solo ed unicamente grazie a Cash, se possiamo essere pienamente consapevoli della magia di un disco di pure canzoni country. E qui non si tratta di uomini che sparano ad altri uomini a Reno. Qui si tratta di amore. Di passione. Di musica. Di anima. Di spiritualità. Di vita. Di morte. Di tutto, in sintesi.

“American V – A Hundred Highways” arriva tre anni dopo la morte dell’uomo in nero. Una morte annunciata. Non parliamo di bieche operazioni post-mortem, please. Non se lo meritano. Né Cash, né Rick Rubin, né tantomeno questo disco. Questo perché il quinto capitolo delle “American Recordings” è bellissimo. Come oggetto album, addirittura superiore a “American IV – The Man Comes Around”, che pure conteneva “Hurt”, insindacabilmente la migliore cover di tutti i tempi. Il disco in sè ha una sua unità, una sua compattezza, una sua identità che mancava nel precedente (forse possiamo trovarla solo nel secondo capitolo…) ed è privo delle cadute di ispirazione che lo venavano. Qui la media è altissima. Sia per quanto riguarda le interpretazioni (una pazzesca “Further On Up The Road” dell’ultimo Springsteen, o “On The Evening Train” di Hank Williams), che per i pezzi scritti da Cash in prima persona (“Like The 309” e “I Came To Believe”, da lasciare senza fiato). Ed è forse il miglior regalo che poteva farci. Lasciarci una volta per tutte con un disco pesante come un pugno ma delicato come una carezza, un disco in cui Rubin produce con la mano di chi sa come far rendere al meglio il materiale (gli arrangiamenti, sempre curati assieme a Mike Campbell degli Heartbrakers di Tom Petty, sono raffinati e tendono ad esaltare la voce di Cash) e Johnny canta con la consapevolezza di cantare per l’ultima volta. Ed è la voce di un uomo che ha già intrapreso il cammino per un altro mondo. Per raggiungere quell’uomo di Reno. Per raggiungerlo nei migliori dei modi. Sicuro che quello che poteva e doveva fare, l’ha fatto. Nessun rimpianto, Johnny.

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