ANIMAL COLLECTIVE, Feels (Fat Cat, 2005)

Gli Animal Collective sono tra le creature più importanti che attraversano il suono americano di questo inizio di millennio: ne ero già praticamente certo perlomeno dal 2003, l’anno di “Here Comes the Indian”, tra i più mirabili risultati artistici degli ultimi tempi e non solo nel ristretto campo del cosiddetto pre-war folk e neanche solo in quello della psichedelia contemporanea.

C’è qualcosa di sotterraneo che lega tutti i lavori di questo bizzarro combo, sia quando al risultato finale partecipa l’intera combriccola – come in quest’ultimo “Feels” – sia quando al timone si ritrovano i soli Panda Bear e Avey Tare, in uno sforzo a due menti e quattro mani che ha prodotto ad esempio “Sung Tongs”. Un album all’anno – nel 2005 due, se si considera anche il bell’EP partorito in compartecipazione con la rediviva Vashti Bunyan – è il ruolino di marcia invidiabile della band. C’è la netta sensazione di trovarsi di fronte a un sentire comune, uno sforzo comunitario che non prevede categorie, vincoli e grerarchie: tutto può accadere, e tutto accade. E sì, perché “Feels” è l’album che (apparentemente) non ti aspetti: niente follie rumoriste, niente cadute in spirali di boati, rumori, memorie bucoliche e frenesie schizoidi, niente balletti demodé alla ricerca delle radici culturali.

L’America del 2005 letta attraverso la musica dell’Animal Collective è una terra alla ricerca disperata della spensieratezza e della pacificazione. Anche per questo “Feels” è un album che suona maledettamente pop: e non quel pop velato che di quando in quando sembra venire alla luce anche dai più profondi anfratti dell’avanguardia, no. Qui si parla di pop nel vero e proprio senso del termine, “Feels” è un album composto da nove canzoni. E che si faccia bene attenzione con i pregiudizi!

Già vi vedo, infatti, lì a storcere il naso, a pensare “ecco un altro gruppo che si è svenduto al mercato”, ad assumere la vostra migliore posa snob con la quale tentate di approcciare il prossimo nella speranza di risultare affascinanti: ma la verità è che, quando la costruzione della melodia è curata a tal punto da diventare elemento narrativo in sè senza bisogno di alcuna aggiunta o abbellimento non c’è avanguardia che tenga. Non ci credete? Siete ancora scettici?

Provate allora a posare le orecchie sulla traccia numero due – l’incipit, “Did You See the Words”, pur splendido, mantiene comunque al suo interno una carica di alterità che non lo rende paradigma altrettanto efficace di quanto ho asserrito finora -: “Grass” è una canzone di tre minuti, dura come qualsiasi singolo potrete trovare in radio, ma dentro ha un mondo a parte che non la rende simile a niente di ciò che potrete trovare in radio. A un timido e aggraziato movimento folk sovrappone una batteria metronomica e monotona, intorno si fa strada un piano (suonato da Anna Valtysdottir dei Mùm) che spazia da semplice accompagnamento a raddoppio fino a strabordare nel circense, l’atmosfera è resa ottusa e magica dal synth, e su tutto si adagia la voce ora salmodiante ora isterica di Avey Tare, con tanto di coretti ad arricchire il contorno. Insomma, un piccolo capolavoro, gemma luccicante che si attesta senza dubbi tra i più mirabili risultati melodici dell’anno.

Non sempre l’atmosfera sixties conquista il proscenio con la sua mise più sorridente e balzellante, e altrove (come in “Bees”) è il riflusso psichedelico a prendere il dominio della situazione: ma non la psichedelia da trip lisergico, più che altro quella da risveglio dal viaggio, in un pianeta alieno, distante migliaia di anni luce dalla materialità della terra.

Altre volte la contemporaneità, ricacciata come sempre in un angolo come da tradizione per i suoni della band, si rifà largo tra le maglie non troppo strette e dà spettacolo di sè, come nell’indefinibilità ammaliante del corpo in perenne mutazione di “Banshee Beat”, ora delicato soffio ora matematico circolo chitarristico, ora ancora pulsazione elettronica incontrollabile e destinata alla reiterazione: quando Panda Bear e soci costruiscono trame complesse la struttura non si mostra mai appesantita, ma bensì pronta ad adattarsi alla bisogna in qualsiasi momento. Neanche i momenti meno ispirati, come la già sentita e tirata per le lunghe “Daffy Duck”, riescono a inficiare la forza d’urto di un lavoro certosino come quello portato a termine dalla band. E quando nella conclusiva “Turn Into Something” si viene gettati in una danza tribale che racchiude in sè tanto i riti animisti quanto la spensierata facezia delle fiere di paese, fino alla saturazione di suoni e alla ottundente pausa psichedelica, è chiaro anche ai più sordi di essere stati in compagnia del collettivo animale di sempre. La svendita al mercato è rimandata a data da destinarsi, così come lo smarrimento della genialità. La ricerca della pacificazione è ancora in corso, ma almeno ora c’è un appiglio in più da afferrare.

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