NEIL YOUNG, Prairie Wind (Reprise / Wea, 2005)

I dietrologi sostengono che Neil Young abbia ormai preso l’abitudine di incidere un album tecnicamente perfetto più o meno periodicamente ogni 7 anni. In effetti gli elementi di continuità fra “Harvest”, “Comes a time”, “Old ways”, “Harvest moon” e “Silver & gold” sono più d’uno. Soltanto cinque anni separano l’ultimo della lista dal nuovo “Prairie wind”, ma la teoria della continuità non sembra cadere: anche ora Ben Keith, oltre a far gemere la propria steel guitar, co-produce insieme a Young, anche ora l’organo è di competenza di Spooner Oldham, anche qui l’atmosfera è malinconica e introspettiva come nei suoi predecessori, ancora una volta uscirà una pellicola celebrativa, si dice a febbraio, girata dal celeberrimo Johnatan Demme (Philadelphia, Il silenzio degli innocenti).

“Prairie wind” presenta comunque alcune novità, innanzitutto negli arrangiamenti, vista l’inusuale adozione di una sezione di fiati e di un intero coro gospel, ma anche nelle canzoni, soprattutto in “No wonder”, ennesima riflessione sugli eventi dell’11 settembre ma unico pezzo di questo album in cui possiamo sentire una chitarra elettrica ruggire, anche se in secondo piano. Tra le composizioni pacate e innocue che escono in prevalenza dalla penna di Young spiccano i momenti più oscuri e meno agresti come la title-tack o la già citata “No wonder”, quelli più spensierati e movimentati come “Far from home”, particolare per il dialogo tra armonica e fiati, e uno spiritual in piena regola come “When God made me”. Come in “Harvest” e “Harvest moon”, anche in “Prairie wind” la scaletta presenta una ballata d’amore dove sono gli archi a prevalere, in questo caso “It’s a dream”.

Non è stato finora un anno facile per Neil, che ha dovuto affrontare un’aneurisma cerebrale in primavera e la morte del padre a giugno, e questo disco non aggiunge nulla di nuovo alla sua quasi quarantennale carriera, che manca di un vero capolavoro da “Sleeps with angels”, cioè dal ’94. Più che altro ci ricorda che stiamo parlando di un uomo con alle spalle una carriera sfibrante e tortuosa, alla soglia dei sessanta, da cui non possiamo più, e forse non dobbiamo, attenderci assoli epilettici o lunghe fughe elettriche, ma il cui elettroencefalogramma si presenta tutt’altro che piatto al confronto di quello di altri suoi coetanei.

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